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Star Trek: Discovery – Analisi del primo episodio della Terza Stagione

È passato un bel po’ di tempo da quando abbiamo detto addio all’astronave Discovery, proiettata verso un futuro misterioso e terrorizzante e finalmente eccoci alla nuova stagione (ultima?) del mio franchise preferito e che negli ultimi anni ha goduto di una nuova giovinezza.

Ed è una partenza col botto: il Comandante Michael Burnham (Sonequa Martin-Green) viene proiettata oltre 900 anni nel futuro e l’arrivo non è dei più comodi. Impatta immediatamente con dei relitti spaziali che la fanno precipitare su un pianeta (a lei) sconosciuto, dove inizierà subito a fare “amicizia” col guascone di turno, un convincente David Ajala nei panni di Cleveland Booker, una specie di mezzo criminale e mezzo idealista che mi ha un po’ ricordato il comandante Rios del recente Star Trek: Picard.

Al di là dei primi vagiti di questa nuova avventura, le basi sono state poste tutte ben in chiaro. La tecnologia, già abbondantemente fantascientifica ma a cui siamo stati abituati da decenni, fa un enorme balzo in avanti e torna a sorprenderci con cose mai viste prima. Torniamo quindi un po’ alle emozioni della serie classica, quando il pubblico venne sconvolto da cose mai viste prima (comunicatori, teletrasporti, e così via), dando così carta bianca alla fantasia degli sceneggiatori e siamo certi che ne vedremo delle belle.

Ma non mancano i momenti toccanti. Star Trek: Discovery ha sempre avuto un’ombra di inquietudine su di sé, l’idillio utopistico di Roddenberry è stato ampiamente messo in discussione e il peggiore dei nostri incubi di trekker trova qui il suo compimento. La Federazione, il faro illuminante per ogni ufficiale della flotta, è un cumulo di macerie. Venerata ancora da qualche vecchio nostalgico ma ridotta più a racconto di taverna che altro.
Mi ha un po’ ricordato la sensazione di macilente nostalgia di Star Wars, quando i Jedi non sono che un ricordo lontano e un’antica religione che ha perso ogni sua forza.

Come se non bastasse, della USS Discovery non c’è traccia: entrati separatamente nel wormhole alla fine della seconda stagione, le leggi della meccanica quantistica potrebbero averla proiettata un po’ ovunque.
Sappiamo che arriverà, ovviamente, ma sospendendo l’incredulità è atterrente la valanga emotiva che travolge il nostro protagonista: naufrago nel tempo e nello spazio (un po’ come Doctor Who senza il suo TARDIS) e completamente smarrito. Con l’unico punto di riferimento, ancora la Federazione, ridotta ad un pallido ricordo. Ed esattamente come Kathryn Janeway, con la sua Voyager smarrita nel quadrante Delta, aggrapparsi con tutta la forza possibile ai principi della Federazione è l’unico modo di mantenere salda la propria sanità mentale, e soprattutto la propria integrità morale.

Perché, come dice Burnham, la Federazione non è un insieme di astronavi e motori: ma un insieme di principi e di persone che vivono per quegli ideali.

Non resta che aspettare la prossima puntata, venerdì prossimo, per scoprire quali strade prenderà la nostra storia ma il lavoro fatto nella scorsa stagione mi lascia davvero ben sperare.
Se sarà o meno un vero reboot (e dovrebbe esserlo, perché per mantenere intatta la cronistoria, la Discovery non può tornare a casa), lo scopriremo.
Il sandbox è apparecchiato, vedremo che costruzioni ne verranno fuori.

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