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Stranger Things – Analisi della terza stagione

Stranger Things

Recensione

Difficile parlare di un fenomeno incredibile come quello di Stranger Things senza cadere nel banale o nelle osservazioni trite e ritrite. È però un dato di fatto che sia una delle serie più chiacchierate, più attese e meglio riuscite degli ultimi anni.
Stranger Things è arrivata alla sua terza stagione e non mostra segni di stanchezza, anzi.
Da una parte è merito della cultura pop anni ’80 che in quel decennio ha sfornato tanto di quel materiale di qualità che costruirci sopra è davvero gioco facile. Dall’altra però, c’è la raffinata alchimia con cui i fratelli Duffer hanno confezionato una girandola di emozioni che, per chi li ha vissuti, ha fatto rivivere davvero le sensazioni e le atmosfere di quei tempi.

Non si tratta di mero citazionismo, alla Ready Player One, bello ed emozionante ma oggettivamente fine a se stesso. Se libro e film infatti sono una vetrina lucida di cultura pop anni ’80, Stranger Things è una vera e propria immersione in quegli anni.
A partire dalla sigla, che richiama i primi libri e le prime atmosfere kinghiane, fino alla quotidianità della vita di tutti i giorni.
Insomma: un conto è guardare un bel quadro, un’opera d’arte. Un altro è quello di entrarci e viverlo sulla propria pelle.

Dopo una seconda stagione che non mi aveva convinto al 100% (l’episodio di Undici-punk è da dimenticare) ma che aveva saputo emozionare ugualmente, avevo grandissime attese per questa terza e tantissima paura che iniziasse a mostrare segni di cedimento.
Devo dire che non solo le attese sono state mantenute, ma ampiamente superate.

Il merito, ancora una volta, è degli autori che hanno avuto il coraggio di uscire dalla comfort zone, ammiccare a nuove citazioni e stravolgere le dinamiche.
Chi si ricorda del primo Steve? L’evoluzione di questo personaggio è un capolavoro di sceneggiatura, ed è dalla cura posta nei personaggi secondari (ma esistono personaggi davvero secondari in Stranger Things?) che si percepisce la levatura di questa opera.

Un plauso enorme va a Maya Hawke, aka Robin, figlia talentuosa di Ethan Hawke e Uma Thurman e che nel giro di una sola stagione è stata capace di fare breccia nel cuore dei/delle fan.
Stesso dicasi di Sadie Sink, alias “Mad” Max Mayfield che vediamo maturare in un personaggio maggiormente sfaccettato e dalle complesse dinamiche intrecciate con l’insopportabile fratello Billy.

Ho apprezzato in modo particolare il nuovo Hopper, per quello che, a conti fatti, è il mio personaggio preferito. Vuoi per le dinamiche paterne che mi hanno rimescolato le budella (credo farò mia la lettera del finale per propinarla a tempo debito alle mie figlie), vuoi perché è davvero il più divertente della gang.

E a proposito di gang, non possiamo non parlare della “banda dei perdenti“, che per la prima volta deve affrontare nuove dinamiche atte a disintegrare dall’interno gli equilibri pre-adolescenziali. Se avete vissuto un’infanzia “normale” quel che avete visto su schermo vi avrà fatto suonare mille campanelli dal profondo della memoria. Le prime coppie, le prime incomprensioni, le dinamiche che mutano, con rapporti che si sciolgono e rifondono su equilibri nuovi, spesso fragili e tutti da scoprire.
Ma soprattutto l’incredibile difficoltà del diventare grandi.

Ed è proprio qui che risiede, a mio avviso, la potenza visiva e narrativa di Stranger Things. Questa serie Netflix non fa sconti: è rivolta a tutti, adulti compresi, ma soprattutto ai ragazzi. E contrariamente a quanto accade negli ultimi anni, non si presenta come qualcosa di zuccheroso e farcito di forzati lieto fine: la vita è una cosa meravigliosa, ma sa fare anche davvero schifo, a volte. Sa essere crudele, fa male, ci mette alla prova anche se siamo poco più che bambini.
È qualcosa con cui ognuno di noi ha fatto i conti, prima o poi, e che ci viene servito in tutta la sua cruda bellezza.

Resta poi la giostra di emozioni che ammiccano alle esperienze personali. Io gli ultimi scampoli della guerra fredda li ho vissuti veramente, e non vi dico il salto sulla sedia quando ho visto comparire la New Coke (un episodio di marketing che ho studiato all’università) o quando mi sono reso conto che il villain di turno altri non era altri che l’uomo in nero de La storia fantastica.

Avrete notato che non ho speso parole esplicite per Undici (che sta lentamente prendendo nel mio cuore il posto che fu dell’Imperatrice Bambina), per Will il Dungeon Master, Mike il capellone innamorato, Lucas o Dustin (anche se ho in loop da due settimane la colonna sonora di Neverending Story). Questo proprio perché mi sono voluto concentrare sul concerto generato dall’opera tout court più che sui protagonisti. Ma se proprio devo spendere una parola, posso dire che questa banda si sta guadagnando il proprio posto nell’Olimpo delle gang adolescenziali, tra illustri antenati come quelle dei Goonies, di Stand by me e di IT.

Tutta roba anni ’80? Ovviamente sì. Per chi li ha vissuti la percezione è che all’epoca la vita fosse più facile, che il mondo fosse meno avvolto dai drammi e il futuro più luminoso.
In realtà uscivamo dagli anni di piombo, Iran ed Iraq erano perennemente in guerra, vivevamo immersi nell’inquinamento industriale, Michail Gorbačëv stava per essere rapito e in Romania imperava ancora (per poco) il dittatore Nicolae Ceaușescu (uno che usava i bambini per farsi trasfusioni di sangue e sentirsi ringiovanito).

No: gli anni ’80 non sono stati più facili o felici; quelli diversi eravamo noi e abbiamo saputo tirar fuori dalla società il meglio che potesse offrire.
Questo ci ha regalato la valanga di cultura pop il cui revival è così di moda ultimamente: una cultura certamente imperfetta, ma ricca di emozioni e di sentimenti positivi.
Gli anni ’80 sono stati un unicuum nella cultura mondiale dal secondo dopoguerra in poi e certamente non torneranno più. Ma questo non ci vieta di riviverli, giusto?

Nerdando in breve

La terza Stranger Things è la migliore di tutte e come gli anni ’80, migliora invecchiando.

Nerdandometro: [usr 4.9]

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