Attenzione: l’articolo contiene spoiler.
Era solo gennaio quando la seconda stagione di ST:Discovery ha preso il via, ma mi sembra passato un attimo. La prima impressione era stata buona, ma devo dire che finita la stagione devo convertire il giudizio in “eccezionale”.
La partenza era stata col botto. Possiamo dire quel che vogliamo sul tempo che passa, sui personaggi, sulle varie storie. Però l’Enterprise “NCC-1701 senza nessuna maledetta A, B, C o D” (cit.) resta sempre e comunque il top per chiunque si chiami trekker.
Una stagione intera con Chris Pike, poi, è stato un vero regalo per i fan e il finale, questo finale, con le sequenze su “quella” plancia, rivista e modernizzata ma non snaturata, è stato capace di farmi venire la pelle d’oca.
Inutile girarci attorno, possiamo anche aver apprezzato i film di J.J. nell’universo Kelvin (non io, a parte il terzo) ma il restyling era stato decisamente troppo invasivo. Tutto troppo freddo e asettico, soprattutto se messo in confronto al cartonato della plancia originale. L’Enterprise vista in Discovery, invece, è la NOSTRA Enterprise. È quella con sui sono cresciuto, quella che ho imparato ad amare negli anni e a conservare nel cuore nonostante i decenni e nonostante (l’ammetto senza vergogna) se provo oggi a guardare una puntata di TOS mi addormento dopo due minuti dalla noia.
Ma Discovery è la storia di Michael Burnham, non di Pike, e lei resta la protagonista. Lei e la sua famiglia. Ci hanno fatto sudare l’arrivo di Spock, ma una volta in scena l’attesa è stata ampiamente ripagata. Questo Spock di Ethan Peck, ricco di contraddizioni, di “sentimenti” ed emozioni contrastanti, che ancora fatica a scendere a patti con la propria umanità, è un personaggio totalmente riuscito. Uno Spock in evoluzione, che solo nell’ultima scena vedremo completare il suo percorso e diventare quello che conoscevamo. Ed è perfetto.
La seconda stagione contiene un arco narrativo unico: quattordici episodi con piccole trame verticali che si incastrano in una sequenza orizzontale non priva di difetti o cali di tensione, ma che nel complesso funzionano dannatamente bene.
Se l’anno scorso prendevo bonariamente in giro coloro che non consideravano ST:Discovery un prodotto “trek”, alla luce di questa stagione bisogna dire che il risultato finale è una delle cose più trek che abbia mai visto da molto tempo a questa parte.
C’è l’esplorazione, ci sono i temi psicologici e sociali, la differenza tra razze più e meno evolute, la contraddizioni della natura umana e i drammi personali. Insomma: c’è tutto quello che ha fatto di Star Trek quello che è.
La prima stagione era stata molto cupa, con metà degli episodi ambientati nell’universo specchio, ma si era conclusa con una catarsi potente ed efficace: la nascita del gruppo, della crew, che finalmente era diventata famiglia.
Ora vediamo questa famiglia, seppur orfana di capitano, all’opera in condizioni estreme. E la vediamo reagire come un corpo unico, armonioso. Insomma: abbiamo il nostro equipaggio che funziona e che gira benissimo tutto assieme.
Nell’economia dei fatti mi spiace solo non avere un capitano all’altezza: Pike, come detto, è un grandissimo personaggio ed è stato uno splendido trait-d’union col passato e col futuro (al punto che si inizia a fantasticare su uno spin-off dedicato a lui, Spock e la splendida Numero Uno), ma non è il capitano della Discovery. Il suo destino è tracciato, e ce n’è stato dato un potentissimo assaggio. Ma questo è tutto.
A questo punto la cosa migliore, che mi auguro con tutto il cuore, è che sia Saru a prendere quel posto. Il suo personaggio è quello che si è evoluto più di tutti ed ha la maturità giusta, finalmente libero dalla paura e cosciente delle sue capacità. Inoltre sarebbe decisamente l’ora di avere un capitano alieno.
Questo, inoltre, darebbe la possibilità di approfondire altri personaggi rimasti un po’ nell’ombra: la Discovery ha una plancia molto affollata e di molti è stata scalfita solo la superficie.
Così come continua a mancarmi la presenza di un dottore. Quelli che abbiamo visto mi sono piaciuti, ma ora ho bisogno di un personaggio carismatico che regga le sorti della salute dell’equipaggio, ed è la cosa che mi è mancata di più fino a questo momento.
Forse con l’evoluzione di Hugh Culber ci stiamo avvicinando anche a quello, vedremo. Ho trovato forzato il suo rientro, ma chi può dirlo: la trasformazione è il vero tema portante di questo Star Trek targato Netflix: ed è la cosa, come ho sempre sostenuto, che più mancava nelle vecchie serie, cristallizzate nel tempo.
Una magnifica scatola di LEGO, come diceva qualche sceneggiatore molto tempo fa: puoi costruirci quello che vuoi, ma quando hai finito devi rimettere tutto come lo hai trovato.
Ora non più. La presenza di tanti e tanti personaggi è sicuramente apprezzabile: abbiamo visto stagioni su stagioni in cui a parte i sette/otto protagonisti tutti gli altri erano comparse dal nome e dal volto dimenticabilissimo. Speriamo ci sia posto per altri personaggi nella prossima terza stagione, che si annuncia davvero molto interessante, con la Discovery sperduta da qualche parte nel futuro e (forse) nel quadrante Beta. Speriamo solo non sia un’altra Voyager, ma la sensazione è che l’arco narrativo della stagione sarà incentrata sul ritorno a casa della nave e degli strani, nuovi mondi che incontrerà sul suo cammino.
Insomma: per me il voto è assolutamente positivo.
Dopo tanti anni di assenza mi sarei accontentato di un prodotto mediocre. Ma signori, questa che ci hanno dato è pura arte.
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