SPOILER WARNING: se non avete già visto Homecoming al cinema correte a farlo e poi tornate qui a leggere.
Tra gli appuntamenti cinematografici di quest’anno quello che più attendevo era senza dubbio Spider-Man: Homecoming (alla pari con Episodio VIII, siamo onesti). Ultimamente i film Marvel non mi stavano particolarmente entusiasmando: da tempo non ce n’era uno brutto, ma nemmeno uno bello ed alla fine diciamo la verità, molti li si va a vedere più per tenere il filo della storia complessiva che per interesse verso il film stesso.
L’apoteosi di ciò è stato indubbiamente Civil War, film ok, ma sicuramente non all’altezza del build up che l’aveva preceduto negli altri film e nelle campagne di marketing. In Civil War però, come già scrissi negli scorsi Nerdando Awards, c’era una scena che mi aveva fulminato, ovvero la comparsa della scrittona “QUEENS”, che mi aveva messo immediatamente in modalità occhi-a-cuoricino.
La stessa modalità si è riattivata ora che sono andato finalmente a vedere Homecoming, ovviamente suscitata dalla scena del logo con la rivisitazione del vecchio tema (che negli ultimi giorni non ho potuto trattenermi dal sentire un milione di volte) e si è mantenuta per tutto il film.
Spider-Man è indubbiamente il mio supereroe preferito, DC o Marvel che sia, e Homecoming è esattamente ciò di cui avevo bisogno perché, finalmente, è stato un film su Peter Parker.
Ma perché questo fatto è così importante e lo rende così splendidamente adatto ai miei bisogni (e spero della maggior parte degli appassionati dell’Arrampicamuri)?
Guardiamo la maggior parte dei supereroi, soprattutto quelli passati sul grande schermo: in alcuni casi abbiamo personaggi la cui seconda identità è quella umana e non viceversa (Superman, Wonder Woman o Thor), in altri abbiamo degli eroi che per una ragione o un’altra non hanno più una vita separata tra le loro vesti “civili” e quelle da uomo in calzamaglia (si pensi a Cap o ai Fantastici 4) ed infine quelli che hanno sì un’identità segreta “pesante”, ma che alla fine è del tutto secondaria ai fini del personaggio e ha solo lo scopo di essere nascosta (Batman è l’esempio più palese).
L’essenza stessa di Spider-Man invece, fin dagli albori, era proprio quella di raccontare le gesta di un eroe che si arrampica sui muri e sconfigge i criminali, ma anche quella di un ragazzino povero e sfigato, uno qualunque, uno che poteva essere come quello che aveva in mano quel fumetto.
Homecoming cattura a pieno questa idea, che si valorizza ancora di più a confronto con gli altri film Marvel ed è ben rappresentata dalla figura di Tony Stark nel film: i componenti degli Avengers sono tutti adulti, agenti speciali o scienziati geniali che si confrontano con pericoli che mettono a rischio il mondo intero. Parker invece passa ancora il suo tempo a fare i compiti e ad aiutare le vecchine che si perdono ed è evidente come Stark voglia preservare questa sua situazione di innocenza.
In questo, Homecoming va anche contro le precedenti iterazioni che abbiamo avuto sul grande schermo: nei film interamente targati Sony infatti l’idea era che bisognava farci vedere come Peter Parker acquisiti i suoi grandi poteri e le sue grandi responsabilità divenisse immediatamente un supereroe, pronto a sfidare nemesi come Green Goblin. Era uno Spider-Man più evoluto, più maturo e, nel caso dei film di Sam Raimi, più adulto anche di età.
La cosa era evidenziata anche dal contesto: i compagni di quei Peter Parker erano gente come il milionario Harry Osborn o la futura modella Mary Jane Watson; i momenti che passavano insieme erano più seri ed inclini all’evoluzione della storia o delle rispettive relazioni.
In Homecoming il surrounding cast è composto da ragazzini normali e la stessa Liz, prima che si scopra che è la figlia di Avvoltoio, è una normale ragazza di cui un normale ragazzo del liceo si potrebbe infatuare e rappresenta il modo in cui infine Spider-Man fa i primi passi a diventare l’eroe che sarà.
Per tutto il film infatti possiamo vedere il diverbio interno di Parker: deve usare il costume solo per impressionare gli amici o no? Deve rinunciare al Decathlon “nel caso arrivi una chiamata dal Sig. Stark”? Deve limitarsi a combattere il crimine di strada o può approcciarsi al mondo dei supercattivi? Deve lasciar perdere Avvoltoio e godersi il ballo con la ragazza che gli piace o fare quello che un eroe farebbe?
Come detto prima, questo Parker è stato morso da tempo dal ragno e ha già imparato la lezione dello Zio Ben, ma non è ancora Spider-Man. È un ragazzino che sta avendo una grande occasione e vuole strafare perché non ha ancora trovato il suo equilibrio ed il suo ruolo nel mondo. È l’incarnazione di quello che è l’eroe adolescente pensato da Stan Lee.
Il modo in cui durante il film impara poco a poco a capire cosa significa essere un eroe è semplicemente perfetto e culmina divinamente nella scena in cui viene sommerso dalle macerie (riferimento palese a “The Final Chapter”): l’ancora infantile Peter Parker è spaventato, chiede aiuto, non sa che fare; è allora che emerge Spider-Man, l’eroe che non si arrende mai e che dà tutto quello che ha.
Quello che nasce da un diverbio tra le due case di produzione, ovvero l’imposizione di Sony a Marvel di non ripresentare la origin story, ha rivelato a noi e spero anche ai produttori come non è importante solo farci vedere “come i poteri vengono ottenuti”, ma soprattutto “come una persona diventa un eroe”. Questo concetto era già stato realizzato alla grande nel primissimo dei film del MCU, Iron Man, ma purtroppo è andato perso nei vari film.
Non rimane che sperare che sia di lezione per i prossimi. Per ora, godiamoci questa favolosa versione del miglior personaggio della Marvel.