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Fairy Tail o “Come ho imparato ad amare il potere dell’amicizia”

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Recensione

Fairy Tail è il secondo manga serializzato dell’autore e disegnatore Hiro Mashima, dopo il quasi-di-successo Rave e, grazie soprattutto ad una trasposizione anime di ottima fattura; è piuttosto popolare in Giappone e nel mondo, inclusa l’Italia, dove è pubblicato da Star Comics mentre l’anime è trasmesso dalla Rai (nota a margine: anche se non doveste mai vedere o leggere Fairy Tail in vita vostra, sentitevi la colonna sonora quando dovete fare qualcosa controvoglia, mi ringrazierete poi).
Nonostante ciò, a differenza di altri shōnen come One Piece o Naruto, è particolarmente divisivo: se una parte della comunità che segue manga e/o anime lo adora e riempie piattaforme come WattPad di fanfiction, chi non ne è fan generalmente finisce per detestarlo.
Ma perché questo strano fenomeno affligge la storia del buon Mashima?
Ebbene, partiamo dall’inizio.

Trama

Fairy Tail parla di una gilda di maghi, i cui componenti vanno in giro a fare missioni per guadagnare la pagnotta, sistemare le gilde rivali e, occasionalmente, salvare il regno/continente/mondo.
Questi maghi però non sono quello che si aspetterebbe un buon aficionado di D&D, tutti libri e bacchette, bensì sono per lo più combattenti che usano la magia per potenziare i propri colpi: tutti sanno che un pugno che provoca un’esplosione di fiamme è ben più potente di uno che ti spacca solo il muso.
In questo, come in praticamente tutto, Fairy Tail sembra rispettare i canoni classici dello shōnen, finché però non ci si rende conto che questi elementi vengono elevati alla quindicesima potenza.

Ciò che desta così tanto astio tra coloro che non apprezzano l’opera di Mashima è proprio che Fairy Tail si può riassumere in una serie di stereotipi palesi, bene esemplificati dal celebre power-up del “potere dell’amicizia”, in cui uno dei protagonisti riesce a battere il suo ben più forte avversario grazie alla coscienza che i suoi compagni credono in lui, un po’ come Seiya (o Pegasus, se siete abituati alla traduzione Merak) nei suoi scontri con il cattivo finale di una saga.
A questo si può aggiungere un uso esagerato del nudo al solo scopo di fanservice ed il fatto che pressoché ogni morte importante si riveli apparente pochi capitoli dopo l’essere avvenuta.

Messa così però sembrerebbe che, effettivamente, Fairy Tail sia un prodotto di scarsa qualità e piuttosto trascurabile a fronte di molti altri manga che sviluppano gli stessi temi ed elementi in modo molto più interessante ed originale.

Tuttavia c’è un fascino oscuro in Fairy Tail che personalmente mi tiene ancora attaccato alla storia mentre questa raggiunge la sua forse scontata conclusione.

Innanzitutto perché Mashima, quando ne ha voglia, è in grado di disegnare ed orchestrare combattimenti, seppur magari non “ragionati” come in JoJo, piacevoli alla lettura e dalla forte connotazione epica.
Poi perché in tutta la storia, tra uno scontro risolto da power-up inspiegabili ed un personaggio che riappare tre capitoli dopo che l’avevamo visto morire, c’è sempre qualcosa, magari una sola vignetta o una linea di dialogo, che fa pensare che qualcosa stia per svoltare, che finalmente tutta l’insensatezza stia per finire e che la storia stia per prendere il taglio più serioso, drammatico ed anche cruento che aleggia sopra la minestra di stereotipi che regna incontrastata.

Probabilmente non avverrà mai questa svolta, ma questa possibilità continua a tenermi attaccato a Fairy Tail nonostante i suoi innumerevoli difetti, e continuerà a farlo fino alla fine (dopo la quale magari mi darò dell’idiota per essere arrivato fin lì).

Nerdando in breve

Fairy Tail è un manga molto popolare ma anche molto divisivo a causa del suo ricorrere eccessivamente agli stereotipi del genere e ad un uso smodato del fanservice. Nonostante ciò la storia sembra sempre che stia per svoltare e regalare momenti epici, motivo per cui è difficile smettere una volta iniziato.

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