Film & Serie TV

NerDisney #4 – Dumbo

I miei ricordi

In realtà, nessuno: io Dumbo non l’ho mai visto. Se questo fosse un “Non puoi non averlo visto” mi soffermerei su qualche trivia o sul lungometraggio animato che ne è stato tratto, invece siccome quella rubrica è lì che mi fissa con uno sguardo più sprezzante di quello della pigna di panni da stirare, parleremo d’altro. Per esempio, parleremo del fatto che l’unica cosa che sapevo su Dumbo era il fatto che l’elefantino in questione avesse delle proverbiali orecchie grandi. Da cosa deriva tale conoscenza? Dal fatto che da piccola ho avuto la gran fortuna di avere la parotite, altrimenti nota come orecchioni: lascio a voi la difficile deduzione di quale soprannome mi ritrovai a portare (per poco tempo, per fortuna).

Elefanti psichedelici e commenti acidi

Il lungometraggio animato di Dumbo esce in America nel 1941 ma in Italia arriva solo sette anni dopo. Erano altri tempi, ciò che fosse lecito era ben diverso dal comune significato del termine, e lo si evince dal fatto che -tolto un solo personaggio- tutti gli altri hanno degli atteggiamenti insopportabili. Di per sé, il film affronta delle tematiche ancora attualissime, come per esempio il difficile rapporto fra desiderio di maternità e realizzazione dello stesso, oppure, ciò che viene bollato come follia, o, ancora, l’accettazione della diversità.

La mamma di Dumbo viene rinchiusa e incatenata perché in un moto di protezione verso il figlio, discriminato e bullizzato per via di un’anomalia fisica, usa l’attacco aggressivo come arma di difesa. Sulla sua carovana viene appeso il cartello mad elephant, e forse a darmi fastidio è stata più l’etichetta che l’allontanamento in sé.

Ogni accadimento è accompagnato dal commento invasivo di tre categorie di personaggi: le elefantesse pettegole, i pagliacci e i corvi che non credono nell’elefante che sa volare (anche se questi ultimi sembrano prendere di mira più l’amico di Dumbo che l’elefantino stesso). Solo due esseri viventi hanno fiducia nel pachiderma: la signora Jumbo (ossia la madre) e il topo Timoteo. Ed è sulla relazione educativa che si fonda fra un topolino idealista e il cucciolo portato dalla cicogna che si basa davvero tutta quanta la narrazione.

C’è poi una scena che ho sentito nominare spesso come gli elefanti viola: quando Dumbo e Timoteo assumono (inconsapevolmente) delle sostanze alcoliche, ha avvio un’inquietante danza di elefanti fucsia tendenti al violaceo che si articolano in danze disconnesse e a tratti psichedeliche. Oggi probabilmente quel tipo di rappresentazione colorata e disconnessa sarebbe destinata alla raffigurazione dell’assunzione di altre sostanze, ma chi può dirlo.

Una musicalità implicita

Se c’è una caratteristica che mi colpisce ogni volta che mi imbatto in un lungometraggio animato sufficientemente datato, è la cura che viene messa nella musicalità di sottofondo. Mi spiego meglio: oggi siamo abituati a vedere quasi dei musical animati, che portano sul grande schermo canzoni e coreografie interpretate dai personaggi del film. In Dumbo invece, la musica sta nel movimento (salvo qualche canzone): gli elefanti che a ritmo picchettano le tende con un martello incastrato nella proboscide, gli uomini che fanno altrettanto e un treno che fischietta e sfreccia sulle rotaie sempre dettando un tempo non monotòno.

Nei film di oggi, gli oggetti inanimati sono tali a meno che non rivestano un ruolo ai fini della trama. In Dumbo come in altri classici invece, anche ciò che non ha alcuna importanza, ha un’espressività facciale propria e sembra quasi essere un vero personaggio. Qui parlo del trenino, affaticato in salita e felice e contento lungo le discese. Potrei dichiararmi stranita, ma essendo cresciuta con i cartoni animati della Pimpa, la quale parlava letteralmente con ogni elettrodomestici, dal forno alla bilancia, direi che è tutto normale.

Com’è invecchiato?

Tanto per cominciare, con un disclaimer all’inizio. Una volta sui VHS c’era la voce registrata che disincentivava la pirateria; ora lo schermo diventa tutto nero e per dieci secondi (non saltabili) trovi scritto:

“Questo programma include rappresentazioni negative e/o trattamenti errati nei confronti di persone o culture. Questi stereotipi o comportamenti erano sbagliati allora e lo sono oggi. La rimozione di questo contenuto negherebbe l’esistenza di questi pregiudizi e il loro impatto dannoso sulla società. Scegliamo invece di trarne insegnamento per stimolare il dialogo e creare insieme un futuro più inclusivo. Disney si impegna a creare storie con temi ispiratori e aspirazionali che riflettano la ricca diversità dell’esperienza umana in tutto il mondo. Per ulteriori informazioni su come le storie hanno avuto un impatto sulla società, visita il sito www.Disney.com/StoriesMatter“.

Non starò qui a commentare la scelta di introdurre quanto riportato, ma sicuramente non si può dire che Dumbo sia invecchiato bene: in un mondo dove il circo con animali in cattività sta perdendo sempre più appeal, dove separare una mamma dal proprio cucciolo urta sempre più animi e in cui si cerca di integrare l’alterità differente, senza che le peculiarità proprie di ciascun individuo ne precludano le possibilità, forse Dumbo trova poco spazio.

Sicuramente il messaggio finale non è invecchiato: “Non contare su amuleti, placebo o piume magiche; credi in te e potrai volare pure se sei un elefantino“. Oppure “Vale più la parola di un amico fidato che cento critiche di chi non ti conosce” o anche “Ogni unicità è speciale: valorizza ciò che ti rende diverso”; eppure, non mi ha lasciata particolarmente entusiasta.

Sarà che su 63 minuti di pellicola, la rivincita personale ne occupa circa un quindicesimo. Un tempo sufficiente ma esiguo, forse anche per questo preferisco le storie di oggi.

Sicuramente c’è un lieto fine, ma è davvero abbastanza una mamma scarcerata il cui nome viene riabilitato, e un elefante che trasforma una propria fragilità in ciò che caratterizza il suo successo, per dire che Dumbo è una bella storia? Probabilmente negli anni Quaranta sì, visto il successo che ha avuto (nonostante ci fosse ancora di mezzo il secondo conflitto mondiale). Oggi come oggi, è una questione troppo soggettiva per sentenziare in modo univoco.

Vi saluto con un dubbio che mi è sorto guardando il film: la mamma di Dumbo, di cognome, si chiama Jumbo. Jumbo è anche il nome della linea di pennarelli Carioca a punta larga (quelli che alla scuola dell’infanzia chiamavamo pennarelli grossi) e il cui simbolo è  proprio un elefantino. Sarà solo una coincidenza?

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