I film di fantascienza sono in grado di immergere lo spettatore in mondi irreali, suggestivi e, a volte, angoscianti.
Solaris, film del 2002 diretto da Steven Soderbergh, sembra essere stato pensato proprio per rispondere a questa affermazione.
Chris Kelvin (George Clooney) è uno psicanalista che vive la propria routine con regolarità.
Solo, con un appartamento ordinato e pulito, il protagonista conduce una vita apparentemente ordinaria fino all’arrivo di un misterioso messaggio da parte di uno dei suoi più stimati colleghi; la stazione spaziale in orbita nei pressi del pianeta Solaris, inviata per studiare le potenzialità energetiche legate alla presenza del corpo celeste, pare destabilizzata dallo strano comportamento che i suoi occupanti manifestano con il progredire della missione. Inviato per indagare e analizzare il fenomeno dal punto di vista clinico, Chris si ritroverà avvolto in una spirale in grado di far vacillare le proprie convinzioni più profonde.
Tratto dal romanzo Solaris del 1961 e scritto dal polacco Stanisław Lem, il lungometraggio ne costituisce la seconda trasposizione cinematografica: di produzione sovietica e risalente al 1972 è infatti il primo tentativo, con Andrej Tarkovskij dietro la macchina da presa, volto a portare sul grande schermo le vicende dello psicologo Kelvin.
Dai ritmi lenti e molto particolare già nelle prime battute, il lungometraggio si dimostra ipnotico con il passare dei minuti.
Soderbergh, aiutato da un cast azzeccato e in parte, regala un piccola perla del genere. Attraverso la convincente prova di Clooney, di Natascha McElhone, di Viola Davis e, soprattutto, di Jeremy Davies, la pellicola riesce a rifunzionalizzare ottimamente quanto presente nello scritto originale e, pur optando per soluzioni diverse nel raccontare le vicende dell’equipaggio della stazione spaziale, riesce a riproporre efficacemente le atmosfere e le sensazioni trasmesse dall’opera di Lem.
L’adozione delle poche ambientazioni è funzionale e mette al centro di tutto i personaggi, i loro sentimenti e le loro azioni.
In una situazione di totale isolamento, in cui le relazioni interpersonali giocano un ruolo fondamentale nel mantenimento dell’equilibrio psichico di un individuo, il regista si impegna per destabilizzare lo spettatore, frantumare gli equilibri sociali e, con pochi e studiati accorgimenti, nel comunicare tutta la frustrazione, il panico e il senso di straniamento che potrebbero verificarsi in noi se ci trovassimo davvero lì, in quel momento.
Le tematiche legate alla comunicazione, ai limiti della ragione umana e alla comprensione della realtà non sono però l’unica chiave di lettura per leggere correttamente tra le righe e tra le scene di questa pellicola. Non si può prescindere, infatti, da una visione puramente romantica dell’opera, che mostra con vividezza e cruda verità quanto tutto, in fondo, sia legato alla ricerca della nostra interezza e a quanto, una volta spezzato l’equilibrio, sia fondamentalmente inutile negare le proprie debolezze.
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