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Quando il martedì sera era l’Anime Night #2 – Trigun

Trigun (トライガン) è uno degli anime più famosi di fine anni ’90 ed inizio anni 2000 ed è tratto dall’omonimo manga di Yasuhiro Nightow e rappresenta un punto di raccordo unico tra il mondo dei manga e quello dei comics americani, a cui l’autore si rifa costantemente per i setting, il character design e nella struttura delle vignette, soprattutto quelle dedicate alle scene d’azione.

L’ambientazione stessa è molto occidentalizzata: si tratta infatti di un mondo alieno ma incredibilmente simile al west dei film hollywoodiani, con alcuni elementi post-apocalittici.

È difficile fare un sunto della trama, visto che come molti altri anime tratti da manga, Trigun si discosta molto dall’opera originale, anche se le ragioni sono da trovarsi soprattutto nella travagliata vicenda editoriale attraversata dal fumetto, piuttosto che da una scelta precisa della Madhouse, casa produttrice del cartone.
Questo ha portato a far sì che Trigun anime si concluda molto più rapidamente, in soli 26 episodi, laddove il manga raggiunge i 17 volumi (o volendo 16, ma vi risparmio questa storia), di cui la maggior parte sono stati pubblicati ben dopo la fine della serie animata. È però estremamente interessante il fatto che, nonostante le distanze temporali nella scrittura e le differenze nello svolgimento, la conclusione sia grossomodo sullo stesso tono e in alcuni dettagli quasi identica.

Il protagonista e fulcro centrale dell’intera storia è Vash the Stampede, il Tifone Umanoide, ricercato da 60 miliardi di doppi dollari e prima persona ad essere considerata una calamità naturale dopo aver distrutto una città intera.
Il Vash delle dicerie è però molto diverso da quello reale: per quanto si tratti invero di un pistolero dall’abilità sovraumana (aggettivo mai più azzeccato), il ragazzone dalla testa a spazzola ed il caratteristico cappotto lungo e rosso è buono e tranquillo e, sorprendentemente, odia ogni forma di violenza.
Purtroppo per lui e per chi lo circonda però, il desolato pianeta (chiamato “No Man’s Land”) abbonda di persone che non vedono l’ora di creare problemi e dolori al prossimo e, spesso e volentieri, il bersaglio di questa aggressività è proprio Vash; questa situazione, sebbene all’inizio abbia più che altro risvolti comici in seguito diventa più e più un fattore drammatico per la storia.
(Nota a margine: è una caratteristica comune a molti anime di quel periodo di iniziare con toni più demenziali per poi assumere più o meno lentamente toni più seri e cupi.)

Nel suo vagare sul desertico pianeta dove si è rifugiata l’umanità dopo che la Terra era diventata invivibile, Vash è accompagnato da Millie e Meryl, due agenti dell’Agenzia Assicurativa Bernardelli, e da Nicholas D. Wolfwood, un reverendo-assassino.
Wolfwood e Vash sono spesso in conflitto in quanto, seppure abbiano modi di agire ed ideali simili, il reverendo trova che l’uccidere, quando estremamente necessario per proteggere la vita di persone care, sia accettabile, mentre per Vash ogni vita è intoccabile, un concetto che ha assimilato da Rem, la donna che ha cresciuto lui e suo fratello gemello Knives su un’astronave che viaggiava dalla Terra fino all’esopianeta dove si svolge la storia.

Vash e Knives non sono umani, ma plant (la cui definizione migliore, “generatori di energia organici”, è imprecisa ed insufficiente, ma spiegazioni più accurate sarebbero lunghe e superflue) con più di un secolo e mezzo di vita.
Knives però, per ragioni che differiscono parecchio tra manga ed anime, non prende a cuore quanto insegnatogli dalla bella Rem, ma invece sabota le astronavi dove giacciono in un sonno criogenico milioni di umani; solo il sacrificio di Rem impedisce l’estinzione della razza umana, che rimane il fine ultimo di Knives.

Lo scopo del vagabondare di Vash si scopre quindi essere la ricerca di suo fratello, per impedirgli di attuare i suoi piani; durante i suoi viaggi però Vash e la sua comitiva devono vedersela soprattutto con gli sgherri di Knives, un gruppo chiamato Gung-Ho Guns guidato dall’inquietante Legato.

Per certi versi la struttura della storia, tanto nell’anime quanto nel manga, segue un canone shōnen piuttosto consolidato: il gruppo di protagonisti che va di luogo in luogo, conosce i residenti locali, un sottoposto del cattivo finale appare, si combatte, il nemico perde.

La trama di Trigun, così come il suo antagonista ed i diverbi etici che fa emergere, non sono particolarmente originali e, seppur interessanti ed avvincenti, non così memorabili.
Ma c’è qualcosa che mantiene in vita l’interesse verso quest’opera, ovvero che Trigun ha stile.
Quando oggi penso a Trigun immediatamente ricordo la sua favolosa sigla, il fantastico cappotto rosso di Vash ed il suo modo rassicurante di tirarsi su gli occhiali da sole o il suo braccio meccanico che si apre per diventare una pistola. Rammento subito i brividi che avevo ogni volta che appariva Legato Bluesummer, accompagnato da sangue e musica stridente, o l’eco delle grida di Hoppered the Gauntlet (l’uomo proiettile). Mi tornano in mente Vash e Wolfwood che discutono mentre lottano per l’ultima polpetta rimasta, il discorso finale di Wolfwood nella chiesa nell’anime e le lacrime al telefono con un mio amico dopo averlo visto e l’ultimo momento dei due nel manga, su un divano in mezzo al niente. Ripenso a Vash che colpisce bersagli da gittate incredibili per poi gridare “Love and Peace!” o alla celebre croce-mitragliatrice-lanciarazzi.

C’è qualcosa di speciale in questo, che non può essere decodificato. Trigun è una di quelle poche opere che è capace di attrarti con un fascino inconfondibile, che ti rimane impresso con la sua unicità per sempre.

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