Immaginate di avere un’idea. Un’ottima idea. Immaginate di essere una piccola Indie e di riuscire a trasformare quell’idea in un gioco, fondendo in un unico splendido gioiello trama, grafica, musica e pathos. Immaginate di dare a quel gioco un nome semplice ma evocativo, come Limbo, e di scoprire che, in men che non si dica, questo gioco diventa non solo un successo di critica e pubblico, ma anche fonte di ispirazione per decine di altri titoli, dalla sua uscita in poi.
Ora immaginate di voler creare un nuovo gioco. Il primo dilemma è questo: come fare a realizzare un nuovo prodotto senza che questo sembri derivare direttamente dal primo capolavoro o da uno dei suoi emuli? E soprattutto: come fare a superare se stessi offrendo ai giocatori qualcosa che non snaturi ma che introduca elementi nuovi necessari ad imporsi nuovamente all’attenzione del pubblico?
La risposta è molto semplice: confezioni un nuovo capolavoro. E lo chiami Inside.
Inside è tutto quello che era Limbo, più tutto quello che Limbo non era. Se al precursore era difficile, se non impossibile, trovare dei difetti, con Inside il compito è semplicemente privo di senso: è un’opera strepitosa, che unisce l’eccellenza del gameplay, a quella del comparto sonoro, a quello tecnico, all’atmosfera. Iniziare a giocare vuol dire catapultarsi dentro la storia: non c’è tutorial, non c’è preambolo, niente di niente; non appena avviato, ho già il controllo del giovane protagonista, un bambino senza volto (chi è?) solo in un bosco (perché è lì?) che deve correre, scappare (da cosa?) nascondendosi da uomini mascherati (chi sono? Cosa tramano?) che, semplicemente, lo vogliono catturare per renderlo schiavo, o ucciderlo. Il tutto in un ambiente cupo e opprimente che, anche quando fa capolino la luce del sole e le tinte del gioco si colorano, resta soffocante, dai contorni definiti (al contrario di Limbo) ma freddi, crudeli nella loro glacialità.
La storia è da scoprire poco per volta, enigma dopo enigma. Veniamo presto a conoscenza di un gruppo paramilitare: loschi figuri mascherati di cui ci sono ignote le intenzioni e solo sbirciandone le azioni possiamo, forse, arrivare ad intuirle. L’unica cosa certa è che non devono catturarci per alcuna ragione: sono armati, sono pericolosi, hanno cani assetati di sangue e tecnologia capace di trasformare gli uomini in burattini privi di volontà. Il nostro compito è semplice sulla carta, ma complesso a realizzarsi: dobbiamo fuggire e sabotare i loro piani.
Inside è molto restio a regalarci informazioni: non sappiamo chi siano i nostri avversari, da dove vengano (siamo nel futuro? Vengono da un altro luogo o dimensione?) o cosa vogliano: la sensazione è quella della società distopica, alienante e depersonalizzante. Possiamo cogliere brandelli di quel che è successo grazie ai dettagli disseminati lungo il gioco: case abbandonate, animali colpiti da parassiti, le deportazioni di massa, uomini come cavie da laboratorio. Tutto è alienante, malato, distorto.
Ho giocato Inside tutto d’un fiato, mi ha rapito fin dal primo istante e non mi ha più fatto uscire. Sono rimasto semplicemente affascinato dalla dinamica delle telecamere, dall’armonia dei movimenti e dal sonoro, perfetto in ogni istante. Alcuni scorci sono mozzafiato, dipinti alla perfezione da una palette colori slavata, essenziale, su cui cadono luci dinamiche curate in modo maniacale. Soprattutto, però, sono rimasto folgorato dal rapporto che gli sviluppatori hanno instaurato coi giocatori. L’assenza del tutorial, dell’introduzione, del parlato, degli spiegoni posticci; tutto sembra dire: “noi siamo Playdead, questo è il nostro mondo, queste son le nostre regole. Se ci entri, devi rispettarle”. Ed è una comunicazione efficace, senza pietà, quasi crudele. Capire cosa fare e come farlo (banalmente quali comandi usare sul pad, dato che in nessun momento abbiamo help o suggerimenti) è compito dei giocatori: nulla ci viene regalato, e anzi, ogni singola conquista, ogni enigma superato, ci porta un pochino più dentro il loro universo, ci rende partecipi di questa esperienza che nessun amante del genere dovrebbe farsi scappare. Tutto ciò che non è storia o gioco è ridotti ai minimi termini: il menù, la selezione capitoli, le scritte. Ogni cosa che potrebbe, potenzialmente, interrompere il sottile filo che collega il giocatore all’universo Inside è stato limitato, o semplicemente omesso. Una scelta a dir poco strepitosa. Inside ha la capacità di fondere l’ambiente con la storia, l’enigma con l’ambiente, e noi con tutto; una comunione solida e infrangibile che rendono questo gioco un universo vivo e reale: se ci sono voluto ben sei anni per svilupparlo, forse un motivo c’è.
Non voglio dilungarmi perché rischierei di rivelare troppo. Sappiate solo che Inside è non solo da giocare, ma da vivere. Forse non è un gioco adatto a tutti, e richiede un bel po’ della malizia tipica dei giocatori più esperti, ma è comunque un’esperienza da fare.
Una sola raccomandazione: evitate come la peste tutorial e playthrough, altrimenti saranno stati soldi buttati via.
Nerdando in breve
Inside è il degno successore del bellissimo Limbo: ne mantiene intatto lo spirito e aggiunge quel maggior respiro che forse mancava.
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