Dopo averlo conosciuto personalmente durante l’anteprima del film Lo Chiamavano Jeeg Robot, abbiamo avuto modo di intervistare telefonicamente Gabriele Mainetti, il regista della pellicola.
Claudia: Com’è nata l’idea alla base del film?
Gabriele: Se hai visto i cortometraggi che ho realizzato in precedenza, non è difficile pensare a come siamo arrivati ad un progetto del genere. In questo film c’è un immaginario pop che non è un fine ma un mezzo per raccontare una storia importante, contaminata da un genere supereroistico che, in questo momento, sta avendo un grandissimo successo. Non ci sembrava doveroso rispondere però sentivamo di voler parlare di un supereroe romano. Mi fa sorridere che Santamaria, durante le interviste, dica sempre: “Mi immaginavo Spiderman che si incastrava tra i fili del tram o Superman che arrivava a Tufello.”.
Ci siamo appropriati di una fantasia che non è nostra, che è americana e la abbiamo inserita in un contesto tutto nostrano dove ci sono persone piene di fragilità, di tridimensionalità, di sfumature che accompagnano lo spettatore.
È una storia folle a cui crediamo perché siamo vicini a loro.
C: Come sono state effettuate le scelte di cast? Come mai, per esempio, è stato scelto Claudio Santamaria come protagonista?
G: Esistono prima i personaggi. Magari, quando si scrive, si pensa ad un attore oppure a un volto, però il fattore più importante è tutelare quel personaggio; bisogna chiamare l’attore più adatto che riesca ad aggiungere spessore, perché il grande attore aggiunge sempre qualcosa ad un personaggio.
Il cinema non è soltanto una storia scritta, il cinema è immagine, è una collaborazione che arriva fino al lavoro con la distribuzione. È un lavoro in divenire, finché il film non esce in sala non è finito.
Ritengo che Claudio sia un attore eccezionale ma spesso è stato sacrificato. Lo conosco da quando avevamo 18 anni, siamo molto amici. Dopo aver letto la sceneggiatura, se n’era innamorato ed ha fatto il provino nonostante ci conoscessimo. Gli ho detto che avremmo dovuto fare un grande lavoro perché è una persona con un’emotività esagerata, ma il personaggio di Enzo Ceccotti doveva essere impenetrabile. Claudio si è trasformato: gli ho anche detto di mettere su 20 chili.
C: Quanto è stato importante l’apporto del cast nella caratterizzazione dei personaggi?
G: Moltissimo. Devo dire che tutti hanno aggiunto tantissimo. Marinelli è stato una sorpresa. Il film è stato girato un anno prima di Non essere cattivo, così nessuno l’aveva mai visto nei panni di un romano. Abbiamo fatto tanti provini ed è accaduto quel “miracolo” che avviene quando hai un attore molto bravo che diventa una proposta continua.
Quando propongo un personaggio, l’attore non è un tacchino che devo farcire. È uno scambio.
Il regista ha una visione e tutti devono concorrere alla realizzazione di questa, ma è importante che sia in ascolto di tutti, dal costumista allo scenografo, dal direttore della fotografia agli attori.
Quella visione che si vuole portare avanti e che deve essere chiara può migliorare con le aggiunte e Lo Chiamavano Jeeg Robot è veramente così.
Bisogna prendere le persone giuste. Questo film ha tanti difetti ma quello che davvero non è successo è che le persone non capissero quello che dovevano fare. Ieri (lunedì n.d.Clack) ho incontrato al cinema il mio operatore Matteo Carlesimo con il quale c’è stato un lavoro di macchina da presa incredibile. Lui sapeva esattamente quello che volevo e lavoravamo in simbiosi.
È stato uno scambio bellissimo con tutti quanti. Marinelli era una sceneggiatura nella sceneggiatura, ha aggiunto davvero tanto al suo personaggio. Pensa che lo Zingaro aveva come mito un cantante italiano (che però non ci ha dato i diritti) e quindi abbiamo pensato a delle icone musicali sostitutive scegliendole insieme, per far capire allo spettatore il background di questo villain.
C: Sarebbe azzardato affermare che questo film possa rappresentare l’inizio per un universo popolato da supereroi italiani?
G: L’universo americano è stato costruito nei fumetti, basti pensare a Batman e Superman oppure a Civil War con Capitan America e Iron Man.
Noi non abbiamo un universo e lo possiamo creare direttamente al cinema: la vedo come una possibilità per fare un certo tipo di cinema italiano che non deve essere necessariamente quello che conosciamo, che cerca di prendersi il meglio delle commedie, il meglio dell’autorialità.
Il crime è un genere molto affrontato in tv ma poco al cinema. Mi hanno offerto di fare tv, ma voglio fare cinema, mi piace fare cinema.
C: Parliamo delle scelte tecniche per dinamismo e potenza e della rappresentazione visiva dei superpoteri. È stata una sfida difficile da realizzare? Quali strumenti tecnici sono stati scelti?
G: Innanzitutto per me era necessario che lui avesse una grande stazza, Claudio ha raggiunto la fisicità che gli avevo imposto. Volevo che fosse tutto molto sporco. I supereroi sono dotati di abilità incredibili che li rendono fascinosi perché non sbagliano mai, mentre io volevo che lui fosse goffo.
Nella prima scena di combattimento, in scrittura, lui spaccava il vetro di casa, entrava e picchiava tutti, io invece volevo giocare sul fatto che cadesse a terra, prendesse un cazzotto e poi contrattaccasse.
Giochiamo molto sulla dimensione di dramma oppure sul momento della dimostrazione del superpotere per poi ridere (oppure il contrario) perché è una caratteristica italiana ed è anche un modo per conquistare lo spettatore. L’italiano, per natura, non crede a un cazzo, figurati a fargli credere che hai dei superpoteri a Roma. Bisogna giocare sul ridicolo e divertire.
Nella scena dello stadio ho voluto che fosse tutto un po’ scomposto. Se si pensasse di realizzare un sequel, ovviamente Enzo non avrebbe più problemi perché ha imparato a gestire i poteri ma al momento mi divertiva che fosse scomposto.
Riprendendo la scena dello stadio, ho voluto che la macchina da presa fosse molto sporca, come se fosse una super scazzottata per strada, con lui che sbaglia mira e prende una colonna di marmo. Volevo che fosse più reale possibile ma che Enzo, rispetto agli altri, avesse qualcosa in più, una grande forza.
Siamo stati molto attenti, Enzo tira i cazzotti soltanto al bancomat e allo Zingaro perché altrimenti aprirebbe in due le persone normali. C’è sempre un’attenzione da nerd.
È per conquistarsi un nuovo immaginario, per mettere in scena il superpotere.
È per far sembrare che fosse una rissa per strada con due rozzi che si stanno pestando ma con in più i superpoteri.
Con tutto il rispetto per Zack Snyder che ha fatto Watchmen, quando vedo Superman con la fronte crucciata e che cammina come un adone e come un dio, tutto perfetto sotto quel costume aderente, messo come se fosse un completo alla moda, mi viene da ridere perché il contesto americano lo conosco bene: mia nonna è del New Jersey e poi è venuta in Italia, mia sorella vive negli USA, mio padre ha lavorato negli Stati Uniti ed io ho studiato in una scuola americana ed ho frequentato l’università a New York.
Un’immagine di questo tipo non mi convince perché a me piacciono i Guardiani della Galassia e non vedo l’ora di vedere Deadpool, sperando che crei un’onda favorevole a Lo Chiamavano Jeeg Robot.
Ti confesso che questa è una domanda molto bella che non mi aveva fatto nessuno.
C: Restando sui mezzi tecnici, avresti cambiato qualcosa, disponendo di un budget maggiore? Avresti fatto scelte diverse?
G: Assolutamente sì. Tu fai domande molto fighe, sei molto brava. Sono domande intelligenti.
Non ho un limite ai soldi da utilizzare, prosciugherei una banca.
Pensa alla messa in scena di The Revenant, adoro la possibilità di non dover tagliare, di non dover staccare. Architettare una messa in scena che avvenga in un solo quadro, quello è pazzesco.
Quando Enzo entra in casa della ragazza prende uno e lo lancia: volevo girarla tutta in piano sequenza ma dobbiamo essere in sicurezza, sarebbe stato pericoloso. Per girare una scena del genere ci vogliono due settimane di preparazione, tanti soldi in più e, soprattutto, bisogna mettere gli attori in condizioni di sicurezza. Certe cose non sono mai state fatte.
Se avessimo avuto più soldi avremmo fatto di più. Tutta la scena sul ponte o allo stadio, per esempio: avrei voluto che loro cascassero al centro del campo durante la partita e che ad un certo punto Enzo tirasse una pallonata in faccia, alla Holly & Benji, contro lo Zingaro, con lo stadio che urlava. Vedi, solo a parlarne mi vengono in mente tante cose.
Il fumetto non ha problema di messa in scena, puoi fare quello che vuoi; nel cinema non è così, ti devi adattare e quella è una rosicata. Hanno criticato la scena dello stadio e hanno obiettato che un film italiano sarebbe finito prima (quando la mamma abbraccia il protagonista) ma a me non frega un cazzo, io voglio andare avanti e non voglio mettere tutto in gioco per dimostrare che so fare tanto, ma perché mi piace.
Riparlando della scena dello stadio, quando i protagonisti si scontrano: io sono lì che partecipo ad ogni cazzotto e mi emoziono. Vorrei vedere di più, adoro le scene di lotta, mi piacciono da morire.
In Italia si pensa che il film debba finire sempre e solo sull’emozione, ma il cinema è spettacolarità, deve fare intrattenimento e noi lo abbiamo fatto all’italiana: dove vai a fare uno scontro tra titani? Non dentro un cazzo di sommergibile chiuso, lo facciamo allo stadio Olimpico durante Roma – Lazio! E se hai più soldi che fai? Fai vedere Roma e Lazio, con i protagonisti che cascano in campo e fanno casino. Se ci fossero stati quei soldi, la gente avrebbe sbroccato. Come ha fatto Nolan ne Il Cavaliere Oscuro – Il Ritorno, durante la partita di football, quando viene giù il campo.
C: Tutte idee per il sequel? Ci sarà?
G: Guarda, se va tutto bene, sì. Voglio troppo bene al personaggio di Enzo Ceccotti, sarà un casino far ingrassare nuovamente Santamaria. Gli daremo degli anabolizzanti… (ride n.d.Clack).
C: Visto che abbiamo parlato di cinecomic, qual è la tua opinione sul panorama fumettistico italiano?
G: Però il mio non è un cinecomic.
Anche perché, nei fumetti italiani, con tutto il bene e l’amore che posso volere ai fumettari nostrani, non c’è un universo italiano: Dylan Dog, Martin Mystere, Nathan Never, Alan Ford… ma viva don Zauker. Dove sono quei fumetti italiani? Io a chi mi dovevo ispirare? C’è GIPI, c’era Pazienza, esisteva al tempo Frigidaire. Quel tipo di fumetto mi interessa. Battaglia è una delle cose più riuscite di Roberto Recchioni, è bellissimo. Orfani è già diverso, più multiculturale, ci sono i personaggi di varie etnie.
Ad esempio Morgan Lost, è bello, ma perché non me lo chiami Morgano Perduto?
Sai perché Zerocalcare rompe il culo a tutti? Perché parla di noi come gli americani parlano di loro nei propri fumetti. Poi ti puoi inventare pure Gotham City ma parlano di loro stessi. Quando leggi Kick Ass, ti rendi conto che parlano di loro e del loro mondo.
Anche il fumettista italiano deve smettere di rompere il cazzo. Io mi schiero contro il fumettame esterofilo: perché in Italia non può esistere Dylan Dog? Perché non si può chiamare Dilano il cane? Poi però Dylan Dog lo continuo a comprare comunque.
Quando il nerdone maledetto che non ha contatto con la realtà va a fare un’imitazione del film americano, scopre che non funziona perché non parla di noi: se vai ad imitare gli americani non ce la fai perché hanno una realtà diversa.
C: Quanto ha influito sulla tua formazione e, di conseguenza, sulla tua cinematografia la cultura del fumetto giapponese?
G: Diciamo che ha influito moltissimo l’anime giapponese, mi ha educato.
Perché Jeeg Robot? Perché Actarus non ha i poteri: quelli sono mecha guidati da esseri umani o comunque esseri viventi (Actarus, per esempio, viene da un altro pianeta). Hiroshi Shiba è un viziatone che non vuole avere a che fare con le responsabilità ma poi lo fa e Enzo Ceccotti fa lo stesso. Poi tutti i ministri si prestavano alle dissociazioni della protagonista.
Preferisco i manga, mi piace Urasawa, stavo rileggendo Eden. Mi sono portato a Firenze (dove era per lavoro n.d.Clack) cinque manga: sto iniziando a leggere L’Attacco dei Giganti che pensavo fosse uno shonen del cavolo e invece, sfogliando il primo numero, l’ho trovato veramente figo; come Death Note: passa per essere uno shonen però non è un prodotto per ragazzini, è un cazzo di capolavoro. Come Blame.
Leggo tanto, leggo il fumetto ma preferisco il manga perché a volte il colore mi rompe i coglioni e preferisco concentrarmi sulla storia, sarà una derivazione da lettore Bonelliano e di Alan Ford, pensa che mi dava fastidio Topolino da ragazzino! L’unico che adoravo perché era caotico all’eccesso era Jacovitti, con Cocco Bill e Lucky Luke.
Il mio rapporto con il Giappone è felicissimo sia con il fumetto che con l’anime: nel periodo di Bim Bum Bam stavo fisso davanti alla televisione. Tutto quello che c’era, lo guardavo. Adesso non sto seguendo molto ma, ad esempio, sto vedendo Gangsta.
Ora faccio così: quando escono dei cartoni prima leggo il fumetto e, se mi piace, guardo l’anime. Ho un approccio più da vecchio, dato che ho 39 anni e non sono più un ragazzino.
Se non leggi, vivi una volta sola.
C: Com’è nata la collaborazione con Roberto Recchioni?
G: È nata grazie alla Lucky Red che voleva creare questo ipertesto. Io avevo detto che c’era con me Menotti di Frigidaire, ma hanno insistito per Roberto Recchioni che è un grande amico di un mio grandissimo amico. Ha visto il film ed io ero un po’ dubbioso, ma Battaglia mi è piaciuto tanto, così l’ho conosciuto e ci siamo trovati: siamo due nerd del cinema d’azione, ci mandiamo i messaggi citando L’ultimo Boy scout perché Shane Black è uno dei più grandi sceneggiatori che il cinema americano abbia mai avuto. Per capirci, Black è anche quello che ha scritto Arma Letale 1, 2, 3 e 4, ha scritto L’Ultimo Boyscout, Last Action Hero, Scuola di mostri. Lui, a 30 anni, aveva contratti da milioni di dollari a sceneggiatura, poi è scomparso e adesso ha collaborato in Iron Man 3 ed ha fatto la sceneggiatura di The Nice Guys, che pare sia pazzesco. Ha ricreato una coppia con quello iperfavoloso e l’altro superduro, come 48 Ore di Walter Hill con Eddie Murphy e Nick Nolte, oppure Tango & Cash, con Sylvester Stallone e Kurt Russell. Insieme ci siamo sbrodolati addosso, scivolando ancora di più nel cinema asiatico di John Woo, ci siamo presi.
Lui ha avuto questa idea, è accaduto in un momento diverso da quello del film. La cosa che mi piace del fumetto è, ad esempio, che Enzo diventa un totale anarchico, come mi sento io nella vita.
Mi è piaciuta questa sua visione e mi è piaciuto che abbia conservato il linguaggio romano anche quando gli hanno detto di non utilizzarlo: ha fatto un fumetto italiano!
C: Quale supereroe dell’universo cinematografico americano (Marvel e DC) avresti voluto in un tuo film? E come sarebbe ambientato in Italia?
G: Hulk! È uno dei personaggi che amo di più, mi distrugge l’anima, lo vedo e mi viene da piangere: vive una fortissima dissociazione. Lui ha questo mostro interno e non lo riesce a gestire, poi tutto questo viene strumentalizzato per aiutare gli altri, è molto bello.
Fa rosicare che non trovi mai una pace.
In Lo Chiamavano Jeeg Robot il protagonista riesce a trovare la pace mentre il personaggio di Hulk deve solo scappare e tenersi lontano da tutti perché altrimenti può fare del male.
Renderlo in Italia? Non si può rendere in Italia, tranne che lasciandolo nell’immaginario Marvel.
Si capisce però che lo adoro: pensaci bene, il mio protagonista pesa 100 kg, è grande e grosso quindi c’è un piccolo richiamo, in fondo. Invece che un protagonista tutto tirato e palestrato, mi piace uno grande, mi piace quella roba lì.
C: Quale personaggio fumettistico italiano porteresti al cinema?
G: Mi piacerebbe Dylan Dog ma andrebbe fatto in inglese, oppure Diabolik ma solo per il cinema, in televisione sarebbe un disastro perché il personaggio non ha la drammaticità che ha Dylan Dog; quest’ultimo è meraviglioso, mi piacerebbe vederlo in una serie televisiva, forse funzionerebbe di più, perché al cinema devi sempre introdurre il personaggio. Ma sarebbe un film in inglese, bisogna rispettare la matrice del personaggio.
Poi, di base, il film lo voglio in lingua originale.
Riguardo a Lo Chiamavano Jeeg Robot, ho letto degli haters su internet che dicono “Ma parla in romano…”, ma è un delinquente e parla in romano, è normale! È realistico! Pensa che Samuel L. Jackson, in Pulp Fiction, quando recita il monologo (Ezechiele 25:17) parla con l’accento di Inwood (un quartiere coatto), anche se in italiano poi l’hanno doppiato “impostato”. Se l’avessero doppiato in romano sarebbe stato perfetto Ricky Memphis, in napoletano Gianluca Di Gennaro, ma da noi è doppiato da Luca Ward, che parla in maniera seria.
C: Chiudiamo con il classico dei classici: progetti futuri?
G: Sto scrivendo due/tre storie, che è la cosa che mi appassiona di più. Di sicuro ne uscirà un film di genere, non una commedia. Magari potrà essere il seguito di Lo Chiamavano Jeeg Robot se va bene, chi lo sa.
Sono un combattente, hai sentito con quale fervore difendo determinate idee perché voglio che la gente comprenda, se le cose non cambiano è perché i giovani, su certi argomenti, sono un po’ rigidi ma spero che possano acquisire una mentalità più aperta.
Il mio film è totalmente imperfetto ma ha una sua identità, ci abbiamo lavorato tanto e gli abbiamo dato un’identità nostra, non è un’imitazione di niente. L’imitazione già di per sé non funziona poi – figurati – con quella americana non c’è proprio confronto per un discorso economico.
C: Ti ringrazio, è stato un piacere fare questa chiacchierata.
G: Anche per me.