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Contrast – Alcune luci, troppe ombre

Contrast!

Contrast!

Qualche mese fa, dando uno sguardo agli scaffali del Gamestop, Marzia nota una confezione dall’illustrazione affascinante, che richiama una ambientazione quasi onirica, molto noir anni ’20. Il titolo in questione si chiama Contrast. “Lo proviamo?”, mi dice. Non me lo faccio ripetere due volte, e durante i saldi estivi di Steam me lo accaparro per il prezzo di un Winner Taco (fa caldo, m’è venuto in mente solo questo paragone).

Che cos’è Contrast? Sostanzialmente si tratta di un platform/puzzle-game legato ad una trama sottile ma affascinante, e anche leggermente inquietante: in una simil-Parigi degli anni ’20 ci viene narrata la storia di una bambina di nome Didi, figlia di una ballerina del cabaret e di un imprenditore circense sull’orlo del fallimento e insidiato dagli strozzini. La situazione familiare pare non essere delle migliori, e la bambina si rifugia evidentemente nel suo mondo di fantasia per sfuggire ad un quotidiano tutt’altro che roseo. Ciò appare chiaro dal momento che il mondo in cui Didi vive sembra popolato da sole ombre, se escludiamo lei e una compagna d’avventura piuttosto misteriosa (che soltanto lei può vedere) di nome Dawn.

Noi guideremo proprio Dawn, che ha l’incredibile capacità di passare dal mondo reale a quello delle ombre e viceversa: è questo il perno sul quale si regge tutta l’esperienza di gioco pensata dagli sviluppatori di Compulsion Games, che hanno sfruttato quest’idea per creare una serie di sfiziosi puzzle ambientali da risolvere pensando a “doppia” dimensione. L’idea è in effetti molto carina, anche se questi enigmi non sono affatto la quintessenza della difficoltà: a nerd navigati come voi non fumeranno certo le meningi, ma piuttosto la parte più “difficoltosa” (il virgolettato è d’obbligo) sarà gestire il tempismo di certi salti che a mio avviso sono stati inseriti soltanto per portare difficoltà ove non ce n’era troppo bisogno, complici anche alcune collisioni del motore grafico non proprio perfette.

L’atmosfera è indubbiamente una delle parti più riuscite del titolo, e ciò affascina sin da subito: il design è ottimo, e si avvale di richiami ad una città e ad un’epoca che sono sempre ammantate di suggestione, con un lieve richiamo anche all’ultimo Bioshock in quanto a meccanismi ed ingranaggi. Compulsion Games ha la sede in una vecchia fabbrica di grammofoni, e il luogo pare avere un influsso molto positivo sugli artisti della compagnia. Il fatto che gli ambienti siano sospesi in una sorta di piano onirico, inoltre, incuriosisce tantissimo e crea domande che spingono ad andare avanti per scoprire maggiori dettagli sulla trama. Anche il contrasto cui il titolo fa riferimento aiuta non poco l’atmosfera, e il sempre verde Unreal Engine 3 fa il suo mestiere dignitoso, regalando bellissimi scorci grazie alle luci e alle ombre molto curate. La colonna sonora, soprattutto il main theme del menu principale, è una vera chicca che rimane in testa anche dopo aver spento il pc.

Purtroppo, e lo dico con un po’ di tristezza, anche con queste buone premesse siamo arrivati ai titoli di coda con un grande amaro in bocca per più di un motivo, al termine di due sole risicate ore di gioco.

Prima evidente delusione è stata la breve durata del gioco commisurata ad una trama risolta in fretta e in furia proprio quando stava ingranando: si parte pian piano gustandosi l’atmosfera, entrando nel mood malinconico, ci si inizia a fare delle domande (a questo contribuiscono tanto i collezionabili, che ampliano gli indizi sulla trama), che ottengono molte risposte proprio nel penultimo livello, e l’epilogo è così moscio e tirato via rispetto alla preparazione che pare quasi che il publisher abbia minacciato i Compulsion con la doppietta, perché bisognava pubblicare il gioco rapidamente. Su tutte, la sequenza prima del finale ci ha fatto uno strano effetto: così curiosa e ricercata, ma finisce in un batter d’occhio tanto che ci siamo chiesti se valesse la pena non inserirla direttamente per non creare le false aspettative che ci siamo creati anche noi. Alla schiera delle mancate occasioni si aggiunge quella che secondo me è la miglior sequenza del gioco, una splendida idea per sfruttare il peculiare gioco di luci ed ombre: il teatro delle marionette. Sfortuna davvero che duri pochissimo, e che si limiti al compitino in quanto a difficoltà, perché poteva essere sfruttato ancor meglio.

Peccato perché gli elementi per essere appagati a livello di storia c’erano tutti, e l’atmosfera onirica è una ciliegina sulla torta non indifferente. Anche qualche parola in più sulla nostra protagonista non avrebbe certamente guastato.

La seconda delusione è a mio avviso legata a doppio taglio alla prima: la breve durata penalizza anche le buone idee di gameplay, poiché risultano non sfruttate a pieno; gli enigmi semplici presenti nel gioco non dovevano essere rese difficili artificialmente, ma appaiati ad un design dei livelli che rendesse l’impresa sempre più ardua con il proseguire del gioco, senza ricorrere a barbatrucchi. Così non ci siamo, perché mi sembra di aver giocato ad un’ottima introduzione, che però non prelude ad un gioco appagante vero e proprio.

Come si diceva a scuola, il ragazzo è intelligente, ma non si applica. Le idee c’erano, ma purtroppo, a conti fatti, ci aspettavamo parecchio di più; è stato sì divertente, ma l’evidente fretta con cui il gioco è stato sviluppato soprattutto nel finale annacqua tutte le buone premesse e relega tutta l’esperienza ad un break piacevole, ma dal retrogusto parecchio amaro.

Speriamo che i Compulsion facciano esplodere il loro talento con “We Happy Few”, il loro prossimo titolo, che perlomeno sulla carta si preannuncia parecchio interessante, con un’atmosfera distopica da brividi e un gameplay più profondo e gratificante.

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