Negli ultimi tempi abbiamo parlato molto di Dragon Age: Inquisition, analizzando in lungo e in largo soprattutto il mondo del multiplayer e oggi voglio tornare sull’argomento per soffermarmi su un altro aspetto. Dopo più di 100 ore di gameplay in single player ho finalmente finito la storia, completando anche tutte le missioni secondarie, e voglio raccontarvi la mia esperienza di gioco e una serie di emozioni e sensazioni che non ritrovavo giocando da ormai forse troppo tempo.
Come avete potuto capire dalle molte cose che ho scritto, sono un videogiocatore di vecchia data e vengo da una storia d’amore per i GdR e JRPG di lunghissimo corso, iniziata quando il buon Tencar mi prestò per qualche giorno Final Fantasy VII su Playstation. Fu immediatamente amore a prima vista e da allora divenni un consumatore compulsivo del genere, riuscendo ad apprezzare sia il genere giapponese di scuola Squaresoft, che andava molto sulla piattaforma Sony, sia i mitici Baldur’s Gate e Icewind Dale su PC. Adoravo il genere, amavo partite che duravano ore e ore, pomeriggi interi passate a seguire storie avvincenti e traumatizzanti (la morte di Aeris in FF VII fu uno shock!), sbloccare i mostri finali, fare farming per diventare abbastanza forti da ucciderli… quel periodo segnò la mia età dell’oro dal punto di vista videoludico.
Ma, come tutte le storie d’amore, anche questa era destinata ad avere il suo periodo di crisi.
Dopo Final Fantasy X non riuscii più a trovare un gioco che riuscisse a coinvolgermi, emozionarmi e divertirmi a quel modo, e, nonostante io riconosca la bellezza dei titoli della Bethesd,a devo ammettere di non essere mai riuscito a finire nessun videogioco targato Elder Scrolls o Fallout. La mia brama di completare tutte le missioni e le località di un gioco mi ha sempre portato a giocarli per ore nel tentativo, ogni volta invano, di raggiungere il mio obiettivo fin quando non mi stufavo; semplicemente il loro open world è sempre stato troppo grande e troppo “open” per me. Tutto ciò mi ha poi inevitabilmente condotto nel tunnel dei MMORPG con l’immancabile periodo di ascetismo ed isolamento dal mondo conosciuto ai più col nome di World of Warcraft: l’eperienza Blizzard mi ha segnato a tal punto che, per un lungo periodo dopo la disintossicazione da WoW, sono stato di giocare solamente a giochini casual/indie e mai per lunghe sessioni.
Dragon Age: Inquisition ha sanato il mio cuore di videogiocatore, riportandomi dopo tanto, troppo tempo a gustare finalmente una trama semplice, ma emozionante e avvincente, riuscendo a farmi affezionare ai personaggi mano a mano che questa si sviluppava. Il mondo, seppur chiuso, è comunque talmente grande, ampio e dettagliato da sembrare a tutti gli effetti un open world la cui esplorazione viene guidata e pilotata da tutto il sistema delle quest secondarie e delle quest legate alle collezioni. Le ultime spingono il giocatore a esplorare con gusto, piuttosto che con il senso di frustazione che io personalmente provavo sugli Elder Scrolls, al fine di scovare luoghi storici, libri nascosti, le storie da taverna e tutti quei tasselli che a poco a poco costruivano il background storico/culturale della trama principale del gioco. Sono tutti questi piccoli aspetti e queste finezze che sono riusciti a farmi apprezzare e gustare fino in fondo il gioco fino ad amarlo; proprio per questo lo ritengo senza dubbio uno dei titoli più belli che abbia giocato negli ultimi tempi e vi invito caldamente, se non l’avete già fatto, a prendervi un po’ di tempo e gustarvi tutta la storia del single player: non ve ne pentirete!