Recensione
Non esagero dicendo che, quando lo vidi nel 1982, il primo TRON mi folgorò all’istante. La sola idea che, all’interno di quelle scatolette magiche piene di luci e suoni, si nascondessero delle vite, digitali ma complesse e reali, mi portò inesorabilmente verso la via del nerdismo.
Ecco: se devo dare una colpa a qualcosa, per le mie passioni, è sicuramente a TRON.
Oggi quei meccanismi risultano ingenui, strappano un sorriso, ma resta intatto il suo fascino naif, acerbo, quando bastavano alcuni cubotti in tre dimensioni e un po’ di luci al neon, a creare un universo intero. E ancora oggi, a distanza di tanti anni, le moto che lasciano la scia e i frisbee che restano ancorati nell’immaginario collettivo anche di coloro che non hanno avuto la fortuna di vivere quei primi, pionieristici passi.
Ho salutato quindi il ritorno su grande schermo con TRON: Legacy con trepidante attesa pur conscio che il nuovo stile, modernizzato a dovere, non avrebbe potuto nulla per regalare quel senso di sorpresa e meraviglia che mi travolse da bambino. E infatti fu una cocente delusione.
Ora, a distanza di quindici anni, arriva sugli schermi la sua nuova incarnazione: TRON: Ares.
Trama
Le due principali aziende informatiche (verrebbe quasi da dire “corporazioni”), Dillinger ed Encom stanno investendo milioni nella ricerca della soluzione al loro annoso problema: far sopravvivere per più di 29 minuti tutto ciò che viene programmato nel mondo virtuale e trasportato in quello reale. Per una qualche misteriosa ragione, infatti, ogni oggetto ricreato grazie a una qualche fantascientifica tecnologia laser, si destruttura e finisce in nulla.
La soluzione, però, esiste già: una doppia linea di codice, prosaicamente chiamata “persistence” che il vecchio genio dell’informatica Flynn ha nascosto da qualche parte.
Dillinger manda il suo master control, un’IA da battaglia chiamata Ares, alla caccia di Eve Kim, CEO della Encom, per portarla all’interno del server (il “Grid”) ed estrarre il codice dalla sua memoria. Ovviamente le cose si faranno più complesse (neanche tanto a dirla tutta) e tra inseguimenti luminosi, combattimenti all’ultimo pixel, esplosioni roboanti, assisteremo a evoluzioni e prese di coscienza, tuffi (letteralmente) nel passato e cliffhanger per futuri seguiti.
Cast
Il film è diretto da Joachim Rønning e interpretato da Jared Leto, Greta Lee, Evan Peters, Jodie Turner-Smith, Hasan Minhaj, Arturo Castro e Cameron Monaghan, con Gillian Anderson e Jeff Bridges.
Rønning, dopo blockbuster come Pirati dei Caraibi – La vendetta di Salazar e Maleficent 2 – Signora del male, si cimenta con un altro caposaldo della cinematografia. Con le sue parole: “L’asticella era davvero alta. Volevo creare qualcosa di nuovo, ma familiare. Ciò che mi ha attratto del progetto è stato il mix tra il mondo digitale e quello reale. L’idea di un Programma che potesse esistere nel mondo reale mi sembrava interessante non avevo mai visto nulla di simile prima. E l’idea che Ares scoprisse cosa significhi essere umani, cosa serva per essere umani, era affascinante”.
Lo stesso Jared Leto ha espresso entusiasmo, sia per il proprio personaggio che per il franchise, di cui è innamorato da sempre. Era stato avvicinato già per Tron: Legacy a cui non ha potuto partecipare per conflitti di agenda. Controparte femminile affidata a Greta Lee (The Morning Show), che interpreta la programmatrice Eve Kim, prima e unica scelta della produzione per il ruolo.
Evan Peters (Mostro: La storia di Jeffrey Dahmer, American Horror Story), interpreta invece l’erede Dillinger e rappresenta il lato oscuro dell’IA, incentrato sui temi in cui ambizione e genio possono portare rapidamente a una deriva pericolosa.
Naturalmente non poteva mancare Jeff Bridges che da sempre rappresenta e incarna il volto del franchise stesso. A lui voglio dedicare la battuta di Legacy, quando la sua versione virtuale (immortalmente giovane) lo incontra: “The Cycles haven’t been kind, have they?”. Un po’ come con tutti noi che lo abbiamo visto per la prima volta 43 anni fa.
Ma fa ancora la sua dignitosissima figura. Pensare a Tron senza di lui sarebbe stato semplicemente assurdo.
Da rimarcare, infine, le musiche dei Nine Inch Nails che hanno composto pezzi originali per questa pellicola che richiamano le sonorità degli anni ’80.
Cosa funziona
Poco, a essere onesti. L’impianto grafico è oggettivamente superlativo, ho apprezzato sia lo stile nuovo che i rimandi al film originale, sia nella grafica che nelle prop di scena. Il fatto che l’ufficio del CEO Encom sia la ricostruzione della sala giochi del primo titolo è a mio avviso una delle scenografie più azzeccate della pellicola. Mi è molto piaciuta anche l’interpretazione di Greta Lee, che ha mostrato, sebbene un po’ stereotipata, un’ampia gamma di emozioni, sensazioni. Non c’era molto spazio per un’evoluzione del personaggio, ma quel poco è stato sfruttato a dovere, con qualche facezia che ho trovato gustosa.
Ho gradito anche i rimandi, sonori e visivi, a Blade Runner. Devo però ancora decidere quanto siano stati omaggi volontari o involontari.
Cosa non funziona
Praticamente tutto il resto.
La prima metà del film è troppo lunga e mortalmente noiosa: di base è un enorme gioco dell’oca (o se preferite Pac-Man) con un gran girare in tondo senza arrivare mai da nessuna parte. Le cose iniziano a migliorare dopo l’incontro tra Ares ed Eve, ma la storia non decolla mai.
Il tema, che avrebbe dovuto essere centrale, su cosa distingua realmente un essere umano da una IA, viene affrontato ed esaurito in meno di dieci linee di dialogo. Intendiamoci: non mi aspettavo un simposio sull’etica della programmazione, ma l’evoluzione di Ares risulta troppo repentina e decisamente ingiustificata. Non c’è un reale motivo per cui il suo programma si ribelli alle direttive di Dillinger e non c’è nemmeno un reale motivo per cui debba empatizzare con una umana. Se gli sceneggiatori gli avessero regalato qualcosa in più di una chiacchierata in auto attorno alla bellezza dei Depeche Mode, il risultato sarebbe stato migliore.
Veniamo agli attori e partiamo con l’anello più debole di tutti, il protagonista. Jared Leto assurge definitivamente a nuovo Clint Eastwood: bello in modo assurdo, e con due espressioni, con e senza casco (da moto). Per le due ore di film dimostra zero espressioni e zero emozioni: certo, si potrebbe pensare a una scelta stilistica dovuta alla sua natura artificiale, peccato che tutti gli altri programmi dimostrino almeno le emozioni base. Il suo ruolo oscilla tra (in)volontarie facezie che strappano un sorriso o due e una piattezza recitativa che funziona alla grande come rimedio per l’insonnia.
Evan Peters continua a fare quello che gli viene meglio: il mostro. Dillinger è un personaggio sopra le righe, vittima di se stesso e della sua ambizione, che lo porta a fare scelte scriteriate che rasentano la stupidità, e a poco servono i rimbotti di mamma Gillian Anderson, a cui viene affidato minutaggio col contagocce, e con quel poco che ha non basta la sua bravura per dare spessore al proprio personaggio.
Oltre alla citata Greta Lee, ho apprezzato il (poco più che) cameo di Jeff Bridges. La sua apparizione, un po’ maestro jedi e un po’ vecchio saggio, fa stringere il cuore ai vecchi nostalgici. A lui è affidata la chiave di volta per l’evoluzione di Ares che, ancora, avrebbe potuto essere sfruttata un po’ meglio andando oltre i già ampiamente citati Depeche Mode, di cui sì: anche noi apprezziamo l’eleganza del loro digital pop.
Chiudiamo la carrellata degli orrori con un’ultima nota sulla trama. Non mi nasconderò dietro al classico “buco di trama”, perché non ce n’è bisogno. L’intero impianto narrativo, eccessivamente annacquato, non sta proprio in piedi. Alla fine risulta solo una scusa per mettere in scena un po’ di spettacolarismo, che però si dimentica appena usciti dal cinema.
Cito solo la cosa che più mi ha dato noia: Lavoisier.
Da dove diavolo arriva quella materia tangibile nel nostro mondo? Come fanno i mezzi digitali a muoversi? Con quale energia? Quale carburante? Da dove escono quelle fasce luminose che affettano a metà le auto?
D’accordo: è fantascienza, non un documentario, ma ritengo che arrivati al primo quarto di XXI secolo, un minimo di sforzo in più si potrebbe fare. Ci sono abbondanti esempi di film di fantascienza in cui viene mantenuto un minimo di plausibilità.
Conclusione
Tron, come concetto, come franchise, rappresenta un’occasione incredibile. Già negli anni Ottanta era stato capace di dare vita e corpo alle emozioni contrastanti che circondavano le scatole magiche dei computer. Eravamo ingenui, ignoranti e sognatori. Il computer rappresentava un miraggio: una possibilità di dare vita all’immateriale.
Oggi il panorama è molto diverso, siamo (generalmente) maturi e consapevoli non solo delle potenzialità, ma anche dei rischi. Siamo passati attraverso Blade Runner e Terminator, e anche se Skynet è ben lontano dal divenire, i recenti risvolti sull’IA stanno facendo serpeggiare le stesse paure di un tempo (di base: quelle dell’ignoto).
Ecco quindi che attingendo a un franchise così immaginifico, Tron: Ares giunge nel momento migliore possibile.
Peccato sia stato sfruttato malissimo.
Ringrazio Disney per l’invito all’anteprima.
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Nerdando in breve
TRON: Ares è il terzo capitolo dello storico franchise Disney.
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