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Ritorno al Bosco dei 100 Acri – Tornare bambini senza fare niente

Ritorno al Bosco dei 100 Acri

Recensione

“Prima o poi, il tuo passato ti raggiunge” è la frase che compare sulle locandine di Ritorno al Bosco dei 100 Acri, il nuovo lungometraggio Disney che sarà nelle sale italiane dal 30 agosto 2018.

Se non sapessi che si tratta di un live action/CGI ispirato a Winnie the Pooh, probabilmente avrei supposto che fosse la morale di un inquietante film horror. Per chiunque abbia visto Black Mirror, e in particolare Crocodile (S4E03), mi sto riferendo proprio a qualcosa del genere: un segreto tanto grosso quanto scomodo, che si cerca di seppellire sotto il peso di anni trascorsi, ma che immancabilmente torna a galleggiare in superficie costringendo ciascuno di noi a dare spiegazioni e ad agire di conseguenza.

In un certo senso è esattamente ciò a cui sarà sottoposto l’ormai adulto Christopher Robin, il quale, pressato dallo stress del lavoro e dalle vicissitudini quotidiane, ha lasciato andare quel pascoliano fanciullino che tante estati passò nel Bosco dei 100 Acri.

Trama

Ritorno al Bosco dei 100 Acri è la storia di una promessa fatta da un bambino al suo migliore amico, e di come quella promessa abbia avuto enormi ripercussioni a distanza di anni.

Ne “La strada di Puh” (A. Milne, 1928) compare uno dei più iconici scambi di battute fra Christopher Robin e l’orsetto Pooh, il quale viene fedelmente citato all’inizio della pellicola:

Christopher Robin: “Pooh, promettimi che non ti scorderai mai di me. Nemmeno quando avrò cento anni.”
Pooh:
 “Quanti anni avrò io per allora?”
Christopher Robin: “Novantanove.”
Pooh: ”Lo prometto.”

E infatti così fu: per anni l’orsetto attese che il suo compagno di esplorazioni sbucasse dall’albero, ma tanti inverni e tante estati dovettero darsi il cambio prima che i due si incontrassero di nuovo. Uno strano giorno però, l’orsetto si sveglia e non trova più nessuno dei suoi compagni: Pimpi, Tigro, Tappo, Ih-Oh e tutti gli altri sono misteriosamente scomparsi. Di conseguenza, dopo una buona scorta di miele, ecco che l’impavido orsacchiotto si mette a cercare l’unica persona mai incontrata, degna di compiere una simile spedizione di ricerca: Christopher Robin.

Nel frattempo, dopo anni di collegio e servizio militare, Chris è diventato un uomo fatto e finito, determinato a fare carriera e dedito al lavoro come un dipendente provetto. Tuttavia, a causa della troppa assennatezza, quel bimbo che tanto amava il dolce far niente ha lasciato andare il beneamato orsetto dalla testa piccola ma dal cuore grande.

Ci vorranno viaggi inaspettati, nuove amicizie e improbabili avventure, perché ciascuno dei due possa rimettere le zampe su quella fetta di affetti che il tempo minacciava di allontanare per sempre.

Fedeltà

Ciò che ho tanto apprezzato in Ritorno al Bosco dei 100 Acri, è la capacità con la quale il team diretto da Marc Forster ha saputo trasformare la pellicola in un libro vero e proprio, che fra luci e voci prende vita sul grande schermo.

Chiunque di voi si sia mai imbattuto in un vecchio libro di Winnie the Pooh, di certo ricorderà i disegni in bianco e nero figli di Ernest Howard Shepard, il quale, con pochi tratti e linee, seppe concretizzare nell’immaginario collettivo i testi di Milne. Alcuni di quei disegni ritornano pari pari nella pellicola, in un perfetto connubio fra citazione e implementazione; altri invece vengono ricreati ad hoc, come se lo stesso Shepard avesse potuto prendere parte alla realizzazione del film.

Diverse scene si aprono e si chiudono partendo proprio da una fittizia pagina del libro, la quale viene creata con la maggior fedeltà possibile, al fine di raccontare ciò che sta per accadere, mantenendo la stessa matrice alla quale la coppia Milne-Shepard ci ha abituati. Per altro, non è la prima volta che ciò accade: dopo Winnie Puh (1926) e La strada di Puh (1928), venne alla luce Ritorno al Bosco dei 100 Acri, un sequel canonico scritto nel 2009 da David Benedictus e disegnato da Mark Burgess. Il duo seppe dare un degno seguito ai romanzi, restando fedele a quella storia scritta più di ottant’anni prima, e riuscendo a mantenere gli stessi tratti che la caratterizzavano, pur apportando innovazione.

Lo stesso accade nel film, dove possiamo trovare numerosi riferimenti a diversi racconti contenuti nei tre libri sopra citati, che sia qualche scambio di battute o semplicemente un’immagine dei romanzi rifatta in live action. Anche i capitoli citati, “Capitolo Quarto, nel quale Christopher Robin incontra Evelyn“, ricalcano perfettamente lo stile letterario (es: “Capitolo Quarto, nel quale Isaia perde la coda e Puh la ritrova“).

Numerosi gli elementi del mondo di Pooh che compaiono nella pellicola, dalla fissazione dell’orsetto per miele e palloncini rossi, al gioco dei bastoncelli dal ponte. Chiunque fra voi conosca almeno un poco le avventure dell’orsetto Pooh, sicuramente ricorderà la gara di bastoncelli sul fiume. Il gioco consiste nell’andare, con almeno un amico e muniti di un ramoscello, su un ponte che attraversi un fiume, e di posizionarsi controcorrente. Ciascuno dei giocatori deve poi lanciare il proprio bastoncello nel fiume, correre dall’altra parte del ponte e vedere quale dei bastoncelli, trasportato dalla corrente, superi per primo il ponte e prosegua più a lungo il tragitto, prima di arenarsi.

In più, troverete il tema di Winnie the Pooh suonato a carillon, Tigro che canta la sua canzoncina, la coda di Ih-Oh che va riattaccata e molti altri riferimenti alle amabili vicende narrate nei libri e trasformate in cartone animato dalla Disney.

Del perché abbiamo bisogno di Winnie the Pooh

Quando ero piccola, ricordo di non essere stata un’amante dell’orsacchiotto. Per carità, apprezzabile eh, le videocassette che avevo sono state ampiamente consumate, eppure ricordo che c’era sempre qualcosa di diverso rispetto agli altri cartoni animati. I colori erano più tenui, nessuna tinta sgargiante; i paesaggi nei quali erano ambientate le vicende erano così bucolici e tranquilli che quasi mi infastidivano, così come la pacatezza dell’orsetto o il continuo tentennare di Pimpi. I miei personaggi preferiti erano proprio Christopher Robin e Tigro, gli unici due elementi dinamici all’interno di un contesto fin troppo pacato per i miei sogni di avventuriera in erba.

Tuttavia, ciò che Ritorno al Bosco dei 100 Acri ha saputo insegnarmi, è che devo dare un’altra possibilità all’orsetto, così come mi sono ritrovata a fare con il Piccolo Principe (altro libro dal quale, da bambina, non ero riuscita a lasciarmi catturare).

Immersa in una vita ormai frenetica e alle volte stressante, durante la visione del film sono stata letteralmente travolta dalla genuina bontà di Winnie. Inutile dirvi che è riuscito a strapparmi più di qualche lacrima, con quelle sue riflessioni tanto spontanee da sembrare alle volte ingenue, ma che colpiscono per la forza del messaggio che portano. Ciò che ho maggiormente apprezzato dell’intera pellicola è proprio la fedeltà nel riprodurre esattamente quel modo di fare che ricordavo, ma che oggi ha saputo comunicarmi ciò che ai tempi dell’asilo non mi diceva nulla. E per forza! Essendo bambina, tutto ciò che diceva Pooh era assolutamente normale e non molto diverso da ciò che (credo) avrei risposto io al suo posto; oggi invece, abituata a costruire castelli di carta con parole superflue, è stato un piacevolissimo pugno nello stomaco.

Inizio a sospettare che l’orsetto altri non sia che il Piccolo Principe del Bosco dei 100 Acri, con una passione per il miele al posto che per le pecore, ma per verificare questi miei sospetti dovrò mettere mano ai racconti cartacei.

Sconfiggere mostri che non esistono

C’è un punto, circa verso la metà del film, nel quale il personaggio di Christopher Robin adulto ha la svolta che lo porterà a riaprire gli occhi. Eccezion fatta per l’orsetto, nessun altro membro del gruppo di animali lo riconosce. Sono trascorsi diversi decenni e il piccolo Christopher è cambiato molto, ma non tanto nell’aspetto, quanto più nell’atteggiamento e nel modo di porsi. Nessuno lo riconosce più perché, durante l’attacco degli efelanti, il ragazzo si rifiuta di combattere.

Convinto che gli efelanti non esistano, davvero non riesce a capire da cosa siano terrorizzati gli amici animali. Prova a spiegare loro con la più tranquilla razionalità che a produrre versi strani e molesti non è un mostro, bensì un segnavento di ferro un po’ arrugginito. Lo prende, lo mostra loro ma benché lui tenga in mano l’effettiva causa del problema, nessuno viene tranquillizzato, anzi.

Il motivo è semplice: nell’immaginario di tutti, gli efelanti esistono, perciò sapere che un pezzo di ferro produce fastidiosi rumori non è sufficiente per annientare quella paura che ormai ciascun membro del gruppo porta dentro di sé come un pesante fardello. Occorre costruire gli efelanti per poterli sconfiggere. Così, dopo un buffo scontro che non vi racconterò, l’eroe del Bosco dei 100 Acri è tornato tale. A Pimpi, Tigro, Tappo e gli altri serviva soltanto qualcuno che li rassicurasse sconfiggendo i mostri che tanto li tormentavano, non che ne negasse l’esistenza; qualcuno in grado di mettersi al loro stesso livello e di interpretare l’eroe che non meritavano ma di cui avevano bisogno, che si fidasse di loro prima di pretendere che loro si fidassero di lui.

Sono convinta del fatto che non sia necessario essere Chrispoher Robin (o Batman) per essere empatici con chi ci chiede aiuto, dando una mano senza la superbia del negare la necessità dall’aiuto stesso, perché l’importante è solo che, alla fine della storia, gli efelanti non esistano più.

Conclusioni

Ci sono ancora molti aspetti dei quali non vi ho parlato, ma non posso dirvi troppo, altrimenti non avrete più nulla per cui sorprendervi. Vi basti sapere che Ritorno al Bosco dei 100 Acri è un film che merita davvero di essere visto. Al di là di tematiche e contenuti, se amate i film ambientati nel primo ‘900, con tinte tenui e toni raffinati, con dettagli pregevoli che rendono altamente realistico ogni istante della pellicola, e una fotografia davvero niente male, allora lo apprezzerete.

In fondo, sapere che “prima o poi, il tuo passato ti raggiunge” è più una speranza che una paura, o forse solo un efelante col quale dover saldare i conti.

Nerdando in breve

Con un Ewan McGregor molto convincente nella parte di un adulto che ha dimenticato la propria infanzia, ma che man mano riesce a riappropriarsene, e con un orsetto di stoffa che sa essere maturo e infantile allo stesso tempo, Ritorno al Bosco dei 100 Acri vi farà passare 104 minuti in davvero ottima compagnia.

Nerdandometro: [usr 4.8]

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