Correva l’anno 1992 e l’industria dei videogiochi non poteva essere più florida: sul mio caro e vecchio Commodore Amiga 500 giravano quasi ininterrottamente le avventura grafiche di Lucas Arts, proprio quelle di cui il celebre The Secret of Monkey Island non è capostipite ma che incarna ancora adesso, a distanza di 27 anni, uno dei massimi punti di splendore.
In quel panorama vivace e spensierato fece capolino, come un fulmine a ciel sereno, questo Lure of the Temptress: avventura grafica confezionata dalla britannica Revolution Software, riuscì ad imporsi non solo per la qualità tecnica dal titolo, ma soprattutto per la capacità di modificare pesantemente l’interfaccia di gioco, rendendola minimalista da un lato, ma molto più potente e articolata dall’altro.
Ma andiamo con ordine. Grazie alle capacità dell’ottimo emulatore ARMIGA (di cui potete leggere una descrizione tecnica approfondita sulle nostre pagine), ho fatto un bel salto indietro nel tempo e sono tornato a vivere le avventure di Diermot, il battitore del re. La vita correva felice sotto l’egida della corona, quando un esercito di Skrol (una via di mezzo tra orchi e goblin) capitanati dalla perfida Selena (la tentatrice del titolo), scatenano una ribellione all’interno del villaggio di Turnvale.
Nonostante gli sforzi, l’orda di Skorl ha la meglio e il nostro povero Diermot viene catturato durante un tentativo di fuga. Viene quindi imprigionato in una cella ed è qui che prendiamo il comando noi e diamo il via alla nostra avventura.
Lo scopo del gioco, ovviamente, è quello di risolvere decine di puzzle ed enigmi ambientali, per giungere al confronto finale con Selena, sconfiggerla e riportare la pace nel regno.
La trama non fa certo gridare al miracolo per originalità. La produzione, travagliata a causa dell’improvvisa morte del fondatore di Mirrorsoft, venne di fatto interrotta per poi essere ripresa grazie all’intervento di Virgin Interactive che affidò lo sviluppo a Revolution.
Ma, come detto, la grandezza di questo titolo non viene dalla storia, bensì dal comparto tecnico. Lure of the Temptress è il primo titolo ad usare il motore Virtual Theatre, ideato e confezionato proprio da Revolution e impiegato, successivamente, per un signore dal titolo Beneath a Steel Sky, nonché e per i primi due capitoli della serie Broken Sword.
La caratteristica di questo motore era quello di realizzare un mondo vivo e realistico, che non risultasse statico e popolato da personaggi bloccati nel tempo a eseguire e ripetere all’infinito due o tre azioni stereotipate. Vi ricordo che siamo nel 1992, per cui non dovete aspettarvi certo il livello di complessità delle IA moderne, tuttavia per la prima volta ci siamo trovati di fronte a personaggi che non fossero mera tappezzeria di contorno, ma si muovevano, interagivano e parlavano.
Ma ancor più innovativo fu il fatto che il nostro protagonista poteva dare ordini complessi e sequenze di azioni a questi personaggi: qualcosa del tipo “prendi [oggetto] poi usa con [oggetto] quindi vai [luogo]” e tutto senza avere una sola icona o comando su schermo. Come era possibile? La genialità sta proprio qui: l’intera gamma di azioni è gestita dal menù contestuale del tasto destro del mouse, menù che si plasma in base all’oggetto (o persona) con cui stiamo interagendo.
Ad accompagnare il tutto, poi, la splendida colonna sonora del compianto Richard Joseph, musicista e compositore per titoli del calibro di Mega Lo Mania, Sensible Soccer, Gods, Speedball 2 e, naturalmente, il magnifico Defender of the Crown.
Grazie alla flessibilità e alla rapidità dell’emulazione garantita dal Progetto ARMIGA, mi sono potuto comodamente sedere alla scrivania e rivivere le emozioni dell’epoca. La prima cosa che ho notato e che, mi duole ammetterlo, avevo dimenticato, è la complessità del titolo. Non tanto negli enigmi, che sono abbordabili, ma nel tipo di interazione tra gioco e giocatore.
Vi faccio un esempio: oggi siamo abituati alla velocità, alla rapidità di azione e, per certi versi, all’immediatezza del tutto. Quando entriamo in un’area virtuale (penso a titoli come Silence) tutti gli elementi sono già a disposizione, basta solo muovere un po’ il controller per trovarli. Talvolta vengono persino evidenziati, così da rendere più rapito l’accesso agli hot spot. Nel secondo quadro di Lure of the Temptress troviamo un uomo incatenato che supplica per un po’ di acqua. La schermata successiva mostra un barile e una bottiglia. Ovviamente la bottiglia va riempita con l’acqua e portata al prigioniero. Ebbene: ho passato dieci minuti buoni per capire come mai usando la bottiglia col barile (che è pieno, muovendolo si sente l’acqua all’interno) questa combinazione non funzionasse.
La risposta: il barile ha un tappo da aprire, ma il tappo diventa attivo solo dopo aver “osservato” il barile.
Questo semplice esempio mi ha fatto capire quanto sia cambiata la metafora del gioco e l’approccio del giocatore allo stesso.
Siamo in un momento dell’industria in cui ci lamentiamo se un titolo dura meno di 10 ore, eppure facciamo di tutto per finirlo di corsa e poi passare a quello successivo.
Negli anni ’90 un titolo doveva tenerci compagnia per settimane intere, a volte mesi, prima di poter passare a quello successivo. Questo voleva dire che un gioco veniva vissuto dal primo all’ultimo bit, e alla fine se ne conosceva ogni sfumatura, ogni peculiarità; i personaggi diventavano nostri amici, perché avevamo passato con loro molte e molte ore.
Adesso, invece, finiamo un gioco spesso senza averlo nemmeno davvero conosciuto e titoli longevi come The Witcher 3, Fallout 4 e Skyrim sono più eccezioni che regole.
Certo oggi abbiamo grafica 4K, impianti sonori tridimensionali, immersività totale con i VR. Ma, mi chiedo, ci godiamo per davvero i giochi come facevamo un tempo?
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