Cara Esther, talvolta ho come la sensazione di averla partorito io quest’isola. Da qualche parte, tra la longitudine e la latitudine, s’è aperto un varco ed è remotamente approdata qui. Poco importa quanto mi sforzi di ragionare, essa rimane una singolarità, un punto alfa della mia vita che rifugge qualsiasi ipotesi. A ogni mio passaggio stendo delle pennellate fresche, sperando che, nel frattempo, sotto la luce accecante della mia disperazione, saranno sbocciate in nuove congetture.
Criptico? Eppure non è che il primo degli indizi che Dear Esther: Landmark Edition ci mette di fronte per dipanare una strana e complessa matassa.
Mettiamolo subito in chiaro: questo non è un gioco. Non nel senso stretto del termine. C’è un’isola misteriosa da esplorare e un uomo dal passato da scoprire, tutto qui. Non possiamo correre, non possiamo saltare, non possiamo interagire con l’ambiente. In poche parole, non possiamo fare assolutamente nulla, se non camminare. Ed è proprio in questo nulla che si concentra il tutto del gioco: senza distrazioni di alcun tipo, il giocatore può dedicare il 100% della sua attenzione ai dettagli, agli infiniti particolari curati in modo maniacale, dai panorami mozzafiato ai resti di qualcosa che è stato ed ora non è più, case abbandonate, navi arenate, figure spettrali che ci scrutano di sfuggita.
Chi conosce e ama il lavoro del maestro Jirō Taniguchi e del suo capolavoro L’uomo che cammina, sa di cosa parlo. Questo manga, pubblicato in un unico Tankōbon, mostra la passeggiata di un uomo che torna a casa dal lavoro. Non c’è trama, non c’è storia, solo un lento fluire di milioni di immagini spettacolari, da assaporare poco per volta, nel minimi dettagli. Con Dear Esther assistiamo a qualcosa di molto simile, ma con un background e un medium differente. Le (non) possibilità date dal gameplay possono essere altamente frustranti se non si sa a cosa si sta andando incontro, altrimenti sono una vera rampa di lancio per entrare in un universo poetico, accompagnati da una colonna sonora delicata e avvolgente, dove la voce del protagonista (recitata in modo magistrale dall’attore britannico Nigel Carrington, prova che gli è valsa una nomination ai BAFTA del 2013) si fonde in un tutt’uno con la natura e l’ambiente circostante.
Dear Esther va giocato al buio e con le cuffie, per ampliare al massimo il livello di immersività. Quando nuovi spezzoni di memoria arrivano, bisogna posare il controller e dedicare l’attenzione ai frammenti di storia, perché il puzzle è complesso e articolato e richiede il massimo impegno da parte del giocatore per essere colto nella sua interezza. Cosa è successo? Chi è l’uomo solitario? Di cosa parla il libro dell’esploratore morente? Ma soprattutto: dove ci troviamo? Che posto è questo?
L’etichetta di walking simulator, che molti hanno appioppato a questo titolo, è a mio avviso assolutamente limitativo, se non denigratorio. Si riferisce unicamente al gameplay, ma trascura l’esperienza che lo accompagna. Probabilmente siamo di fronte al punto di contatto più vicino tra industria videoludica ed arte. Arte visiva, sonora, recitata. Una perla assoluta.
Un difetto, però, ce l’ha. Non dura abbastanza: come un buon libro, che lascia l’amaro in bocca quando finisce e regala al lettore un senso di vuoto incolmabile, così Dear Esther sembra giungere troppo presto a termine. Fortunatamente, in questa versione abbiamo la possibilità di rigiocarlo con il commento dei registi e, sono convinto, che per quanta attenzione abbiate messo nel vostro primo playthrough, ci saranno comunque sempre nuovi particolari da scoprire e che erano sfuggiti ad un primo passaggio.
Dear Esther: Landmark Edition è disponibile per PlayStation 4, Xbox One, Microsoft Windows, Linux e Mac OS.
Nerdando in breve
Dear Esther è un titolo strano, che rompe gli schemi. Sicuramente per pochi, sicuramente per palati raffinati.
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