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Far Cry Primal: benvenuti nell’era della pietra

Europa Centrale, 12.000 avanti Cristo, età della pietra: signori, benvenuti nel Mesolitico.

Un po’ a sorpresa e privo dell’immenso battage pubblicitario che accompagnò l’uscita di Far Cry 4, Far Cry Primal approda sulla mia console Xbox One pronto a farsi sviscerare e l’impatto, nel bene e nel male, è di quelli che lascia il segno.
La prima cosa da dire è che mi sono trovato di fronte ad un titolo sui generis, di difficile collocazione e capace di rompere gli schemi. Chi ha giocato e vissuto questo titolo come la naturale evoluzione del franchise ha, a mio avviso, preso una cantonata pazzesca. Sì, si chiama Far Cry e sì, il gameplay è quello che gli amanti dei precedenti capitoli riconosceranno e apprezzeranno. Tuttavia c’è molto di più da scoprire, una volta scalfita la superficie.

Il franchise di Far Cry, soprattutto se analizziamo il 3 e il 4, si è distinto non solo per il particolare gameplay, ma anche e soprattutto per lo storytelling e per i suoi personaggi. Caso più unico che raro, in copertina non abbiamo il protagonista, ma il villan della storia. Mi riferisco, ovviamente, tanto a Vaas Montenegro quando a Pagan Min che facevano da contrappunto all’eroe, un uomo senza volto che da essere comune inizia, suo malgrado, una lenta discesa verso l’abisso della follia, diventando de facto un alter ego del villan (vero protagonista della storia). E ancora: contrariamente a molti altri titoli, il cattivo non è un boss di fine gioco su cui scopriamo alcune cose man mano che procediamo, è invece una presenza costante e fortemente carismatica, seppur in modo distorto; c’è un rapporto strettissimo col protagonista senza volto e alla fine del gioco non sempre è facile distinguere tra l’eroe e il villan (ricordate la scelta finale di Far Cry 3?).

Ebbene, tutto questo in Far Cry Primal non c’è. Molti hanno accusato il titolo di avere una storia con poco mordente, ma probabilmente perché hanno perso di vista che siamo di fronte più ad un esercizio di stile (e che stile!) che ad un banale nuovo capitolo del franchise. Non mi sorprenderebbe vedere uscire tra un anno un Far Cry 5 nuovamente ambientato in epoca moderna, magari nella foresta pluviale o in qualche altro ambiente “estremo”.
Come dicevo, Ubisoft mette pesantemente mano al franchise, dando una svolta inattesa e originalissima: ambientare un titolo nell’epoca della pietra vuol dire rinunciare ad una comfort zone rassicurante (sebbene con alcuni stratagemmi siano presenti anche qui rudimentali bombe molotov, bombardamenti aerei e rampini), vuol dire mettersi in gioco e metterci la faccia. Se Assassin’s Creed è stato da anni accusato di non sapersi rinnovare, qui bisogna dare merito ad Ubisoft di aver preso decisioni coraggiose.
Protagonista della storia è Takkar, un beast master: guerriero capace di domare le belve e comandarle per farsi trasportare o per farle attaccare al suo posto. Ma in un mondo dove non esistono manufatti complessi e la vita è strettamente legata all’ambiente, la raccolta di risorse diventa fondamentale per costruire attrezzature, cacciare e sopravvivere in un luogo che fa di tutto per avere la meglio: l’uomo non è ancora all’apice della catena alimentare e le tigri dai denti a sciabola non faticano a ricordarcelo.
Nell’arco delle 20 ore necessarie a completarlo, Far Cry Primal pecca un po’ di ripetitività nelle missioni: trovare, cacciare, salvare, distruggere. Tornano anche le peculiarità del franchise, declinate in salsa preistorica, come la liberazione degli avamposti e la conquista delle torri.
La resa grafica, invece, è semplicemente spettacolare: una festa per gli occhi che non mi stancherò facilmente di guardare e ammirare.

Punta di diamante, a mio avviso, è stata la scelta di avvalersi della consulenza di due linguisti per confezionare il parlato dell’epoca: Andrew e Brenna Byrd, linguisti dell’università del Kentucky, hanno prodotto non una, ma due lingue proto-indio-europee (di cui una, per le tribù Wenja e Udam, declinata in due dialetti mutualmente comprensibili, mentre l’altra è dedicata agli Izila) seguendo regole di fonetica e grammatica universale, in modo da realizzare un linguaggio vivo, verosimile; al pari, se non di più rispetto a quanto abbiamo potuto apprezzare con linguaggi fittizi come il Klingon, il Quenya, l’alto Valyriano e il Dothraki.
La sfida maggiore, in questo lavoro di cesello, è quello di creare un linguaggio che suoni “reale”: per il giocatore è come trovarsi proiettato in un altro Paese con una lingua di ceppo diverso alla propria. Il cervello umano è progettato per riconoscere il linguaggio naturale e si sforza in modo naturale di decifrarlo, mettendo in moto meccanismi neurofisiologici atti alla comprensione. È un’esperienza che tutti noi abbiamo fatto, entrando per la prima volta in contatto con lingue a noi sconosciute, e la sensazione che si prova ascoltando i protagonisti di Far Cry Primal è esattamente questa, al punto che anche senza comprendere minimamente quel che viene detto, si capisce al volo che Wenja e Izila sono due lingue diverse, come se ascoltassimo in sequenza prima il russo e poi l’arabo: non capiamo una parola ma sentiamo che sono due diversi idiomi.
Insomma: un lavoro maestoso e chi ha studiato un po’ di linguistica all’università, come il sottoscritto, non potrà che restarne deliziato.

In conclusione, Far Cry Primal non è certo un titolo per tutti: al di là delle fazioni estreme (addicted o hater) è innegabile lo sforzo fatto da Ubisoft per tentare qualcosa di nuovo, ed è doveroso dare il giusto merito all’essersi saputi mettersi in gioco partorendo qualcosa che non si vede spesso sugli scaffali; tecnicamente eccelso, meno nello storytelling e privo dell’anima dicotomica eroe-villan, etichettarlo come “il nuovo capitolo di Far Cry” è tristemente riduttivo: Far Cry Primal è qualcosa di originale, che ammicca sì al passato ma lo fa rimescolando le carte ed esplorando piste non battute.

Si ringrazia Ubisoft per il materiale.

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