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Due chiacchiere con: Andrea Chiarvesio (Kingsburg, Hyperborea…)

Andrea Chiarvesio

Andrea Chiarvesio

Andrea Chiarvesio è un game designer. Inutile aggiungere altro, perché l’ho ampiamente sfiancato durante questa lunga ma molto interessante intervista, quindi direi di lasciare a lui la parola!

Giandomenico: Ciao Andrea, benvenuto su Nerdando.com! Probabilmente i lettori amanti di boardgames ti conosceranno benissimo, ma abbiamo anche tanti neofiti che si avvicinano a questo mondo nella nostra community, per cui ti chiedo di dirci chi sei e che fai di bello.
Andrea: È sempre la domanda più difficile! Sono un appassionato di giochi (l’età possiamo ometterla?), giocatore anzitutto, game designer per passione. Ho avuto la fortuna di lavorare per qualche anno in grandi aziende del settore (Wizards of the Coast, Upper Deck) e di incontrare grandi autori come Richard Garfield e di cercare di imparare da loro! Da lì l’idea, o se volete la presunzione, di provare ad applicare quanto imparato in anni di gavetta e ideare i miei giochi.

G: Mi sembra d’obbligo un elenco dei giochi da te ideati!
A: Kingsburg, Olympus, Arcanum, Crazy Office, Hyperborea, Movie Trailer, Kingsport Festival e Richard I° come giochi da tavolo. Mentre come giochi di carte: le Quack Cards, Wizards of Mickey, Reigns at War, Drizzit the card game.

G: Momento del “3”: vorrei i 3 giochi ai quali sei più affezionato e perché.
A: Escludo i miei, non farmi scegliere tra i miei “figli”, ti prego. Vado indietro nel tempo, perché i giochi a cui sono più affezionato, ovviamente, li gioco da almeno una ventina di anni.
Magic: l’Adunanza rimane il gioco da cui ho appreso di più in termini di game design, e grazie al quale ho trovato un lavoro e una carriera, quindi non può non venire al primo posto.
A Città Perdute di Knizia devo alcuni bei ricordi, e una lezione di eleganza ed essenzialità nel design.
Ho anche un ottimo rapporto con il Grande Dalmuti di Garfield (in genere ho un ottimo feeling con tutti i giochi del maestro).
Come macrocategoria, rimango un giocatore di ruolo che non ha più tempo da dedicare al gdr.

G: E ora vorrei i 3 titoli che, ad oggi, vorresti rinnovare perché non ti soddisfano più.
A: Stiamo sempre parlando di giochi di altri autori, vero?
Mi piacerebbe vedere un vero rifacimento di Talisman che funzioni bene (o comunque meglio di Runebound, per dire)… l’approssimazione più vicina che conosco è un videogame in betatesting che si chiama Armello: praticamente Talisman incontra i Coloni di Catan (dateci uno sguardo, è promettente e un porting “da tavolo” sarebbe potenzialmente interessante secondo me).
Non credo di riuscirne a trovare altri due di altri (molti che avrebbero necessitato un remake o comunque uno svecchiamento, come Tikal, Arkham Horror o Bang! , per dire, sono già stati rifatti in meglio).
Allora ci metto due giochi miei: vorrei rimettere le mani sulle meccaniche di Olympus prima o poi (non tanto sulle meccaniche quanto sulla realizzazione materiale del gioco, ma con l’occasione si può lavorare anche su quelle), e penso che Wizards of Mickey avesse delle potenzialità tuttora inespresse (ma questo sarebbe un lavoro titanico per cui dovrei, tipo, prendere sei mesi di aspettative dal mio attuale lavoro, quindi dubito lo farò mai).

G: E se dovessi dare l’oscar per i 3 peggiori titoli mai giocati, a chi li daresti?
A: Che “brutta” domanda, nel senso che fatico a risponderti. Il gioco tecnicamente “peggiore” a cui credo di aver mai giocato, forse, è Pirateer della Mendocino Game Company. Considerate che è un gioco del 1978, però.
A dire il vero, credo che al massimo si possa parlare di “giochi non adatti a me”, più che di giochi migliori o peggiori. Diciamo che se proprio mi estrai questa risposta a forza, posso elencare tre delusioni (giochi che, una volta provati, mi sono piaciuti molto meno di quanto avrei sperato): Le Case della Follia, PatchHistory, Camel Up.
Non sono né li considero, però, giochi “brutti”, ci tengo a precisarlo, semplicemente la mia, personalissima, esperienza di gioco è stata deludente rispetto alle mie aspettative.

G: È il momento di parlare del game design. Come lo definiresti, al di là dell’ovvio significato letterale?
A: Game design è progettare l’esperienza di gioco. Avere in mente il tipo di esperienza che il giocatore dovrà provare, e strutturare il tutto in un sistema coerente di regole.

G: Raccontaci di come è cambiato il tuo approccio al game design, ma soprattutto com’è cambiato il game design in sé, da quando hai iniziato ad oggi.
A: Quando ho cominciato, non c’erano nemmeno le, sia pure poche, basi teoriche odierne. Era più un capire le cose facendole, e fare tesoro dei suggerimenti degli altri autori se avevi la fortuna di incontrarli e trovarli disponibili. Qualche anno prima che io iniziassi, per dire, non era nemmeno usuale avere il nome dell’autore sulla scatola. Oggi inizia ad esserci un maggiore riconoscimento del ruolo del game designer, e si inizia a pensarlo come una professione specifica con una sua professionalità. Ma va detto che tuttora nemmeno sempre gli editori di giochi ragionano in questa maniera (quando questo succede, si generano i miei – fortunatamente pochi ma sfortunatamente di solito epici – contrasti con gli editori suddetti).

G: Ti provoco: ad oggi, pensi che ci sia poca fantasia e che ci siano troppi “cloni”? Magari anche da parte di alcuni autori che sono troppo auto-referenzianti e propongono sempre lo stesso concept con lievi variazioni sul tema?
A: Invece, mi trovi d’accordo. Credo sia evidente che quella che già era una situazione preoccupante di sovra-produzione di giochi (a causa delle deboli barriere all’ingresso – in fondo per pubblicare un gioco ci vogliono molti meno soldi rispetto a tante altre attività – e della totale incapacità degli operatori di settore di fare efficacemente da filtro) stia ulteriormente degenerando a causa delle piattaforme di crowfunding, che hanno molti pregi ma anche questo, esiziale, difetto.
Quanto al ripetersi da parte degli autori, sono d’accordo con te. Io cerco (ammetto che non sempre ci riesco) di non pubblicare, ma nemmeno di realizzare un prototipo, se penso che per quel gioco non ci sia uno spazio, un’esigenza sul mercato. Per dire, ci ho messo sette anni a rimettere le mani sul motore di gioco di Kingsburg per “tramutarlo” in Kingsport Festival e l’ho fatto anche dietro pressione di Gianluca Santopietro (l’altro autore di KF) e perché ritenevo che forse, dopo 7 anni, poteva avere senso l’operazione. Con maggiore scorrettezza intellettuale, in questi 7 anni avrei potuto pubblicare anche “Spaceburg”, “Kingsburg: defenders of Rome”, ecc… sfruttando la stessa meccanica in altre ambientazioni. Ma non è una pratica di design che apprezzi particolarmente, ecco.

G: Cosa ne pensi delle filosofie del gioco sparse per il mondo? Ad esempio la tedesca, oppure l’italiana, per poi raggiungere l’americana, e così via… E qual è la tua preferita?
A: Penso che sono tutte rispettabili e condivisibili, proprio perché non penso che esistano (al di là di quelli con gravi difetti tecnici di funzionamento) giochi veramente “brutti” o “migliori” o “peggiori”. Le filosofie di gioco sono figlie della mentalità dei giocatori di quel luogo o gruppo linguistico, e le ritengo tutte ugualmente valide. Chiaramente mi riconosco maggiormente in quella “italiana” ammesso che si possa tracciare un profilo definito. Più di ogni altra cosa, mi piace mescolare, sparigliare. Inserire elementi “american” in una struttura “german”, imparare dal game design giapponese e francese, così come dai colleghi italiani. Capisco che questo renda spesso i miei giochi invisi ai “puristi” difensori di questa o di quell’altra filosofia (a questo punto si dovrebbe forse iniziare a parlare di “ideologia” vista la virulenza con cui a volte gli amanti di una tipologia o dell’altra attaccano i giochi “non conformi”).

G: Immagino che per essere un game designer bisogna innanzitutto essere un grande giocatore. Ma, al di là dei gusti personali e della complessità del gioco, secondo te cosa deve provare un giocatore per un’esperienza davvero coinvolgente? E quindi, come spieghi il successo di alcuni classici come Carcassonne oppure Puerto Rico?
A: Anche in questo caso, è difficile generalizzare. Categorie diverse di giocatori richiedono esperienze differenti. Mi rifarò comunque alle grandi teorie classiche sul gioco: Calloin parla di quattro categorie di giochi ovvero Mimesis, Alea, Agon e Ilinx. Nell’ordine, i giochi di “rappresentazione” (narrativi), i giochi con componenti aleatorie (se vogliamo potremmo incasellare qui gli american), quelli competitivi (astratti e german, sempre per una rozza semplificazione) e quelli basati sull’euforia (per dire, i party games).
Personalmente, credo che i confini siano più sfumati di così, e che queste siano quattro componentistiche essenziali di quasi tutti i giochi (con poche, estreme eccezioni e in genere sono proprio i giochi che, personalmente, non mi piacciono o che non ritengo nemmeno tali), e semplicemente i generi siano identificabili dalla loro componente “prevalente”. Per esempio, se sto progettando un party game, la mia prima preoccupazione è che sia coinvolgente e divertente, ma non significa (almeno secondo me) che io mi debba scordare del tutto le regole per stabilire un vincitore, che non debba inserire degli elementi casuali o inaspettati o che non debba considerare la, sebbene minima, “ambientazione” del gioco.
Non so se questo risponde esattamente alla tua domanda, ma non saprei essere più preciso.

G: E passando dalla parte di chi i giochi li fa, quanto è effettivamente difficile creare meccaniche di gioco nuove? Sono frutto di intuito e inventiva oppure ci sono metodi particolari per arrivarci, al di là della “cultura di base” in materia di titoli giocati?
A: È difficilissimo, perché anche con un bagaglio molto ampio di conoscenze e di titoli (che sicuramente aiuta anche il processo creativo, che spesso nasce da frammenti di altre cose) la produzione attuale è talmente sterminata che capita più di una volta di avere un’idea e poi di andare a controllare o sentirsi dire che qualcosa di simile esiste già.

G: E cosa consiglieresti a chi vuole avvicinarsi al mondo dei game designer?
A: Di farlo prima di tutto per il proprio piacere personale. Come disegnare, dipingere, comporre musica o scrivere una poesia, sono attività bellissime perché ci permettono di esprimere il nostro io. Se invece la prospettiva è quella di farla diventare una professione… che serve tanta gavetta e molta fortuna e che si può essere bravissimi e non ottenere alcun riconoscimento, quindi di partire con le aspettative basse, tanta umiltà e voglia di ascoltare chi ha avuto la perseveranza e la fortuna di aver già fatto qualcosina. Leggere qualche libro in proposito (sono quasi tutti in inglese purtroppo) male non fa. E non sto nemmeno a ribadire che giocare tantissimo e conoscere il più possibile i titoli già esistenti è indispensabile.
In fin dei conti, credo che essere game designer sia come essere poeta, pittore o cantautore, scrittore o compositore… alla fine dei conti crei giochi, componi, scrivi o dipingi essenzialmente perché non puoi farne letteralmente a meno.

G: Nel 2014 e nel 2015, quali sono i nuovi giochi che ti hanno conquistato e che consiglieresti ai lettori di Nerdando.com? Non valgono ancora quelli fatti da te: ne parleremo fra poco!
A: Come dicevo, sono prima di tutto un giocatore, quindi qui ho solo l’imbarazzo della scelta.
Recentemente gioco spesso a Bruges, Elysium e Coloni Imperiali (suppongo che si veda la mia passione per i giochi di carte, o comunque card-driven), Burgundy, un po’ meno spesso a Abyss o Deus ma apprezzo anche questi.
Sul versante giochi “leggeri” o comunque per tutti mi hanno conquistato Colt Express e il Sesto Senso, ma ho apprezzato molto anche Spyfall, Rush & Bash (qui il nostro articolo, ndG), Pirilin Pinpin, Machi Koro.
Tra i giochi di carte leggeri, ho scoperto di recente Port Royal e una gemma semisconosciuta che si chiama Fleet, oltre a Star Realms.
Ultimamente ho meno tempo e voglia di giocare a titoli più complessi, ma devo dire che l’eleganza di Zhang Huo l’ho apprezzata molto ed è un titolo che suggerisco volentieri agli amanti dei giochi più corposi.
Sul versante “American” non posso non consigliare Dead of Winter, il primo gioco a tema zombi che mi piaccia davvero.
Sono certo che me ne sono scordato qualcuno, dovrei dare uno sguardo alla ludoteca di casa quando rispondo a queste domande! Inoltre ci sono giochi che non ho ancora provato ma vorrei tanto giocare, come Alchemist, Robinson Crusoe, X-Com, ecc… troppi giochi e mai abbastanza tempo!

G: Cosa ti aspetti da questa seconda metà del 2015 e, perché no, anche dal 2016?
A: Nella mia sfera di cristallo ludica vedo sempre più commistioni tra giochi ed elettronica (app per tablet). E tante, troppe produzioni legate ad hype effimeri o a una bella grafica. Intendiamoci, io apprezzo tantissimo una bella grafica in un gioco, ma se diventa l’unica cosa che conta beh, allora vado a vedere una mostra d’arte ;-).

G: Ora veniamo a noi. Raccontaci un po’ più a fondo la tua storia e come sei diventato Andrea Chiarvesio, game designer.
A: In realtà credo di avere già risposto prima. Da quella che è prima di tutto una passione per i giochi è nata una storia lavorativa che lentamente si è arricchita di un bagaglio di esperienze, tra cui realizzare alcuni giochi su commissione o partecipare alla localizzazione e allo sviluppo di giochi per le aziende per cui lavoravo. Alla fine di questo percorso, ho deciso che forse avrei potuto provare a proporre un mio prototipo per la pubblicazione. Fortunatamente è piaciuto ed ha avuto un discreto successo (parlo di Kingsburg), da lì ho capito che avrei potuto dedicarmici seriamente, e così ho fatto e sto facendo.

G: Il percorso è difficile, immagino, ma cos’è che fa la differenza?
A: Tante cose, suppongo. Umiltà, perseveranza, fortuna, passione, rinunce… anche un pizzico di talento innato – magari non fa “la differenza” ma non può mancare. Credo sia anche molto importante quella sorta di “molla interiore” a cui accennavo prima. Per essere pubblicati, invece, credo sia anche molto importante saper approcciare gli editori nel modo corretto, professionale ed intelligente. Saper capire a chi presentare un gioco e a chi no, e in che momento. Insomma, creare giochi è tutto sommato relativamente semplice, farli pubblicare decisamente più complesso, un gioco in sé!

G: La carriera di ogni persona è, fisiologicamente, composta da alti e bassi. Qual è il tuo “alto” inaspettato? E quale il “basso” imprevisto?
A: Richard I° ha avuto, una volta pubblicato, un’accoglienza più lusinghiera di quanto avrei previsto, sia tra i giocatori che gli addetti ai lavori. Merito anche ai ragazzi della District Games e alla bravissima illustratrice Diana Cammarano.
Avrei voluto fare un lavoro migliore su Arcanum. Purtroppo, per svariati motivi che non è il caso di approfondire in questa sede, è forse il mio gioco in assoluto in cui il risultato finale (in termini di esperienza di gioco) è più deludente rispetto alle mie, personali, speranze ed aspettative. Confesso poi che, pur non potendomi lamentare della circolazione internazionale di Hyperborea, speravo avesse un impatto maggiore, proprio perché è secondo me uno dei pochi giochi con qualche elemento davvero originale comparso sul mercato nell’ultimo biennio.

G: Sulla rete è nota la tua fama di “persona poco amante delle critiche”. È il momento di sfatare o confermare questo mito!
A: Non amo le critiche solo quando sono espresse in maniera poco educata, quando nascono da stupidi campanilismi o meschinerie, quando nascono dalla totale mancanza di comprensione della tipologia di gioco che si ha di fronte o quando sono proprio sbagliate tecnicamente (“X fa schifo perché in questo gioco la fortuna conta di più rispetto al gioco concorrente Y” quando invece è tecnicamente vero l’opposto). Ammetto che è un ampio catalogo di tipi di critiche che non amo… probabilmente questo fa di me una “persona poco amante delle critiche”. 🙂
Credo, allo stesso tempo, che molti recensori e giocatori equilibrati possano testimoniare che invece prendo molto bene le critiche che hanno un senso logico, sono espresse civilmente e (magari!) costruttive.
Comunque, “di solito ho da far cose più serie” che stare ad ascoltare tutte le critiche…

G: Proviamo a testarti: “Kingsport Festival è un Kingsburg rivisto ma neanche più di tanto”.
A: Ecco, vedi, questa è un’affermazione (più che una critica), ed è peraltro sostanzialmente corretta. Nel senso che i due giochi condividono la stessa meccanica di base (per dire, capisco perfettamente il giocatore che non vuole entrambi in collezione ma che sceglie l’uno o l’altro in base al tema o al gusto… KF è un po’ più “american”: io farei lo stesso!), e poi la sviluppano in direzioni tutto sommato simili, con gli adattamenti dovuti ai temi diversi. Quindi questa la accetto e addirittura quasi la condivido anche io. Per farmi arrabbiare avresti piuttosto dovuto scrivere “Kingsburg [uscito nel 2007] è un gioco che copia le meccaniche da Xyyyyyyy [uscito nel 2008]”.

G: Ok, direi che è meglio evitare altre provocazioni! Scherzi a parte, come ti trovi con le community?
A: Io sono e mi ritengo sempre e prima di tutto un giocatore, quindi amo le community di giocatori. Adoro essere in fiera e parlare con gli appassionati di giochi, magari anche discutere di pregi e difetti dei miei giochi o dei giochi di altri, confrontarmi, argomentare, ecc… Se posso dire, ho rapporti difficili (eufemismo) solo con chi si atteggia ad “opinion leader” senza magari avere nemmeno le basi tecniche per farlo… ecco, in quel caso se la “community” segue cecamente l’opinione di uno di questi autoproclamatisi opinion leader (che magari ha una sua, personalissima, agenda che non condivide certo con il resto della community), allora posso pensare che la “community” stia prendendo una cantonata… insomma, è il rapporto che ho con i tifosi di calcio: adoro e condivido la passione dei singoli tifosi di qualunque squadra, ma, nello stesso tempo, mi rendo conto che una curva di tifosi trascinata da pochi capi ultras può fare dei danni notevoli.
Ecco, ho un rapporto splendido con i giocatori appassionati e uno pessimo con i “critici, i personaggi austeri, i militanti severi”, quindi “chiedo scusa a vossia”. 🙂

G: Passiamo ora ai tuoi “figli”. Personalmente ho apprezzato molto il gioco di carte di Drizzit, sia la scatola base che l’espansione. Lo abbiamo esaminato dal punto di vista di Bigio e di Mario, ed ora è d’obbligo concludere la trilogia col punto di vista di Andrea l’autore. Vai!
A: Ho adorato e adoro lavorare su Drizzit. Prima di tutto, sono un lettore delle strisce e un fan di Bigio (anche se il suo capolavoro è The Author). Poi, Bigio, a cui si deve l’idea base del gioco, è un giocatore appassionato ma anche un serio professionista con cui è un piacere lavorare. Mario è una delle poche persone nell’ambiente parlando del quale non ho problemi ad usare la parola “amico”, e cercavamo da anni l’occasione di lavorare assieme.
Il gioco fa il suo lavoro, ovvero cerca di trasmettere ai lettori di Drizzit la sensazione di vivere le avventure dei protagonisti del fumetto, tra una risata e un momento di “botte” (e tette, non scordiamocelo). Sono molto orgoglioso di come è venuto fuori, se conoscete il fumetto o anche solo se cercate un cooperativo leggero e un po’ “dadoso” mi sento di consigliarvi di provarlo!

G: Le tue ultime produzioni comprendono Hyperborea e Kingsport Festival. Ce li racconti? Che feedback stai ricevendo dal pubblico?
A: Hyperborea, come dicevo prima, sta avendo una grande diffusione, merito del fatto che è pubblicato da Asmodée che ormai è il primo editore al mondo nel nostro settore. Sono molto orgoglioso di far parte della piccolissima schiera di autori, credo, che ha pubblicato i propri titoli sia per Asmodée che per Fantasy Flight che per Kosmos.
Probabilmente avrebbe dovuto uscire una Essen prima, ma purtroppo ha subito un po’ di traversie editoriali che lo hanno in parte, temo, penalizzato. Inoltre, una parte del pubblico non ne ha capito o non ne ha apprezzato la natura di “ibrido” tra german e american (cosa che si era già verificata, a dire il vero, con lo stesso Kingsburg, forse è una costante della mia storia da designer).
Venendo al gioco, unisce la meccanica del “bag building” (aggiungi cubi colorati ad un sacchetto, ad ogni turno pescane almeno 3 e cerca di utilizzare al meglio quelle che hai pescato) ad un’ambientazione, sia pure leggera, di un gioco “4X”. Quindi proprio un’ibrido tra un motore german e una carrozzeria american, come si dice probabilmente è “per molti ma non per tutti”.
Kingsport Festival è un gioco che vi mette nei panni di un cultista che adora i Grandi Antichi di Lovercraft. Anche qui troverete un’ibrido tra una meccanica ancora abbastanza tedesca come quella di Kingsburg (dadi, risorse, edifici), e l’ambientazione molto curata (devo dire un grazie speciale a Gianluca per questa parte). È il “rovescio della medaglia” di Arkham Horror, per molti versi.
In entrambi i casi, credo che un gioco del genere mancasse sul mercato. I feedback sono, come spesso accade molto vari, e spaziano da “è il gioco più bello a cui abbia mai giocato” a “non era quello che mi aspettavo e quindi non mi è piaciuto”. Ci sta. 🙂

G: Il discorso “pubblico” mi fa pensare alle fiere. Come si stanno evolvendo, e come le hai vissute tu nel corso di questi anni? E quante demo ti sciroppi ogni volta?
A: Frequento fiere ludiche (o para-ludiche) da ormai una ventina d’anni. Non posso dire di aver visto tutta questa evoluzione, se devo essere sincero. Certo, le dimensioni sono cresciute (la Lucca di adesso è un evento internazionale dell’intrattenimento, la Play attuale è l’evento italiano del gioco, ecc…). Pregi e difetti sono più o meno gli stessi: le fiere dedicate solo al gioco, con la lodevole eccezione di Play, fanno fatica ad attirare un pubblico che non sia quello degli appassionati più sfegatati, mentre nelle fiere “miste”, il mondo del gioco continua ad essere quasi ovunque (anche qui, ci sono eccezioni) visto come gregario rispetto ai contenuti “culturali” come il fumetto (e qui, a volte, mi allieta la memoria storica perché i fumetti a metà del secolo scorso erano visti né più né meno come i giochi oggi, ovvero “cose da bambini”), o a quelli che portano più pubblico come cosplay e videogames. Personalmente, cerco di fare meno demo possibili in fiera, perché (contrariamente a quanto ritengono alcuni miei colleghi) non credo affatto che quello sia il ruolo o il compito dell’autore. Poi, certo, mi presto volentieri all’occasionale “partita con l’autore”, ma preferisco di gran lunga provare prototipi di altri o rendermi disponibile per altre attività fieristiche (workshop, conferenze, incontri…).

G: Qual è per te la fiera “raising star” e quale quella che sta perdendo in qualità? E qual è la prossima fiera su cui puntare? Ovviamente mi riferisco al settore Boardgames.
A: Non partecipando (per ovvi limiti di energie ed avendo anche un lavoro “altro”, rispetto a fare il game designer) a tutte non saprei cosa dire… posso dire che, dove ho avuto la fortuna di essere ospitato recentemente (il Comicon di Napoli ed Etnacomics a Catania), non soltanto mi sono trovato benissimo a titolo personale, ma ho visto uno spazio dedicato ai giochi in crescita e bene organizzato, in regioni dove, forse, le prospettive di crescita sono potenzialmente maggiori che altrove… per la prossima fiera… dovrebbe esserci un evento interessante in autunno in provincia di Savona ma non so se gli organizzatori hanno piacere che già ne parli…!

G: Avendo collaborato con diversi editori, immagino tu non sia un ospite fisso degli stand. Dicci però dove possiamo trovarti nei prossimi mesi, magari qualcuno vorrà passare a salutarti!
A: Farò sicuramente un salto a salutare gli amici di GiocAosta, e sarò presente all’evento “misterioso” ligure in Settembre, credo. Poi le solite Essen e Lucca. Naturalmente, se qualcuno mi invita ad altre fiere nel frattempo, vedrò se posso essere presente!

G: Classica, canonica, inevitabile domanda sui progetti futuri. Voglio spoiler pesanti!
A: Sto davvero lavorando a tantissimi progetti. Intanto, espansioni: insieme a Pierluca Zizzi e al gruppo di Yemaia stiamo lavorando all’espansione di Hyperborea, con Mario e Bigio alla seconda espansione di Drizzit e poi… spoiler pesantissimo… insieme a Luca Iennaco ad un modulo extra per Kingsburg (non ditelo troppo in giro, mi raccomando!). Di miei e basta, un altro paio di giochi legati al mondo del fumetto su cui posso davvero dire poco o nulla… più un altro progetto che forse alla fine, contraddicendo quanto detto in precedenza, potrebbe rappresentare il mio esordio sulle piattaforme di crowdfunding… inoltre l’edizione internazionale di Richard I° che cambierà titolo e avrà un discreto upgrade alle meccaniche (senza perdere la sua caratteristica di fondo di gestionale facile fino a 8 giocatori con un po’ di alea e di cattiveria).
Di prossima uscita (ma non so quando) ho altri due giochi realizzati insieme a Pierluca Zizzi: un nuovo gioco per la Giochi Uniti, dal titolo “Dungeon Heroes Manager”, in cui i giocatori sono degli speculatori che finanziano spedizioni di eroi alla ricerca di tesori nei dungeon di un mondo fantasy generico (facciamo che è quello di Kingsburg, via) e un gioco per la What’s Your Game dal titolo – non so quanto definitivo – di “Signorie” in cui torno a fare un gestionale con dadi.
A questi vanno aggiunti i prototipi (due o tre al momento) tuttora in cerca di editore, incluso un curioso gioco che mescola strategia e un elemento di destrezza…

G: Bene Andrea, ti ringrazio molto per il tempo che ci hai dedicato e non ci resta che metterci a giocare!
A: In effetti rispondere all’intervista mi ha occupato il tempo di almeno un paio di partite, devo recuperare!

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