Dopo la puntata dedicata a Wolfenstein 3D, voglio continuare il viaggio nella mia infanzia videoludica, con uno dei giochi che mi ha segnato di più in assoluto: Doom.
Nato dalle stesse menti malate che partorirono Wolfenstein, Doom è una pietra miliare non solo nel genere degli FPS, ma dell’intera industria del videogioco, viste tutte le innovazioni dal punto di vista grafico e non solo che riusciva a presentare.
Non molti sanno che Doom doveva nascere come una sorta di ibrido tra un FPS e un gioco di ruolo, con una trama molto complessa e la possibilità di sviluppare il protagonista con abilità diverse mano a mano che si progrediva nella trama, praticamente quello che oggi potrebbe essere un gioco come Fallout, senza open world. L’idea fu scartata dal team di sviluppo della id, guidato da John Carmack (esatto, proprio quello che sosteneva che le trame dei videogame sono come quelle dei film a luci rosse), e il gioco divenne definitivamente quella sorta di horror fantascientifico che ricordava nemmeno troppo vagamente Alien.
Come esperienza di gioco, Doom fu per me allo stesso tempo un trauma e una rivelazione: un trauma perchè gli horror mi terrorizavano, e mi terrorizzano tuttora, tant’è che mi ci volle una grossa dote di coraggio per affrontare, qualche anno dopo, titoli come Resident Evil; la rivelazione fu che, per la prima volta, un videogioco rappresentava una vera e propria sfida alle mie abilità di giocatore. Nonostante il passaparola e la lettura delle varie riviste specializzate, The Games Machine su tutte, avevano rivelato la presenza dei famosi trucchi per Doom (IDDQD vi dice qualcosa?), mi incocciai, insieme a mio padre, a finire il gioco senza ricorrere a questi espedienti. Passavamo così le nostre serate a finire con pazienza, uno alla volta e cercando di scoprire tutti i segreti, ogni livello del gioco, immersi nel buio delle ambientazioni claustrofobiche del titolo: non dimenticherò mai lo scontro finale contro il megademone col lanciarazzi, in particolar modo i suoni a lui associati.
Così Doom divenne, per me, la prima vera e propria esperienza di gioco hardcore: finito il primo, prendemmo inizialmente i Master Levels e tutte le varie compilation di livelli aggiuntivi che, ogni tanto, era possibile acquistare in edicola, fino ad aspettare con pazienza l’uscita del secondo episodio della saga, anch’esso giocato e divorato con avidità.
Sono sicuro che molte delle persone che stanno leggendo questo articolo, se come me si trovano sulla trentina, probabilmente avranno vissuto esperienze molto simili alla mia.