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Scott Pilgrim vs. The World: anatomia di un cult senza tempo

scott pilgrim

Articolo a cura di Antonio Petito che trovate qui
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Ok, parliamoci chiaro; il tempo è un giudice spietato, soprattutto con il cinema. Quante volte ci è capitato di rivedere un film che adoravamo da bambini solo per scoprire – con una punta di amarezza – che non era invecchiato affatto bene? È quasi un piccolo tradimento, un momento in cui ci rendiamo conto che la magia era legata più al contesto che alla bellezza effettiva e che la polvere del tempo, alla fine, si posa inesorabilmente su quasi tutto.

Poi però, ci sono le eccezioni, quei piccoli miracoli cinematografici che, contro ogni previsione, con il passare degli anni non solo non perdono smalto, ma brillano di una luce ancora più forte. E forse nessun film moderno incarna questa idea meglio di Scott Pilgrim vs. The World, un’opera che, a quindici anni dalla sua uscita italiana, non sembra semplicemente invecchiata bene, ma quasi ringiovanita, come se il mondo avesse finalmente ottenuto i mezzi per stare dietro al suo strano linguaggio, soprattutto considerando il periodo d’uscita (2010), durante il quale Hollywood si preparava a sfornare una quantità enorme di film tratti da fumetti grazie a Marvel, DC e qualche altro esperimento sparso, andato più o meno bene.

Inizialmente infatti, Scott Pilgrim sembrava appartenere proprio alla categoria di quei film nati “un po’ storti”, ma poi qualcosa è cambiato.

Un glorioso fallimento

Mettiamola così: il botteghino di Scott Pilgrim vs The World fu un disastro. Costato circa 60 milioni di dollari, ne recuperò meno di 50 a livello globale, diventando sulla carta uno dei più grandi flop del 2010. Il problema era semplice: nessuno sapeva come etichettarlo.

Era troppo strano per essere una commedia romantica, troppo surreale per essere un film d’azione e troppo autoreferenziale per il grande pubblico, che non capì il suo linguaggio fatto di estetica 8-bit, onomatopee a schermo e battaglie in stile videogioco.

Ma fu proprio quando le luci della ribalta si spensero che la vera fortuna del film ebbe inizio. Lontano dai cinema, grazie al passaparola e a un fandom che cresceva esponenzialmente e in modo quasi carbonaro, Scott Pilgrim guadagnò sempre più fama, e la sua ascesa divenne inarrestabile, fruttando più nel decennio successivo che durante la sua run cinematografica, dimostrando che, a volte, il giudizio più importante non è quello del presente, ma quello del tempo.

Un film a tempo di musica (letteralmente)

La verità è che per capire Scott Pilgrim vs. The World non basta guardarlo, ma bisogna… ascoltarlo.

La sua genialità sonora, va infatti ben oltre una semplice “soundtrack azzeccata”, ma è molto di più.

Tanto per cominciare, Edgar Wright aveva infatti un sogno proibito, un capriccio artistico molto difficile da realizzare: usare un brano di The Legend of Zelda. Sapendo però che i normali canali legali con Nintendo sarebbero stati un vicolo cieco, decise di scavalcare gli avvocati e scrivere direttamente all’azienda. Nella sua lettera, descrisse il brano che voleva non come semplice musica, ma come “la ninna nanna di un’intera generazione“.

Questa singola frase fece breccia nel cuore di Nintendo, che non solo gli concesse la musica, ma fornì con entusiasmo anche una serie di effetti sonori iconici del gioco, da poter usare nel film.

Questo aneddoto è la chiave di tutto: la cura per il sonoro, orchestrata dal produttore Nigel Godrich (il “sesto Radiohead”), era la costruzione di un mondo. È sua l’idea di affidare a Beck il compito di scrivere le sgangherate canzoni dei Sex Bob-omb, ed è sua la scelta di coinvolgere colossi come i Metric o i Broken Social Scene per dare un’identità unica a ogni band.

E a proposito dei Metric, eccovi una scena in cui Brie Larson (che nel film interpreta Envy Adams) esegue una cover della loro Black Sheep, in una scena che fa capire quanto il montaggio sia stato influenzato dalla colonna sonora, in maniera quasi maniacale.

Come ti anniento un archetipo

Lasciando da parte il grandissimo comparto visivo e volendo parlare di scrittura, è inutile dire che anche qui il lavoro è stato dei migliori; il soggetto iniziale è di qualità, l’ironia è particolare e la narrazione scorrevole, ma ciò che valorizza al massimo la sceneggiatura di Scott Pilgrim vs. The World è la caratterizzazione dei personaggi, in particolare di uno: Ramona Flowers.

In superficie, il personaggio col volto di Mary Elizabeth Winstead potrebbe sembrare l’incarnazione di un cliché che il cinema indipendente dei primi anni 2000 ha usato fino alla nausea, ovvero la Manic Pixie Dream Girl, quella ragazza cool, misteriosa, con i capelli colorati e una personalità eccentrica che arriva per salvare il protagonista maschile dalla sua noiosa esistenza, essendo più una sorta di estensione della sua personalità che un personaggio tridimensionale.

Film come 500 Giorni Insieme di Mark Webb (Sì, proprio il regista dei due The Amazing Spider-Man) uscito appena un anno prima, avevano già provato a mettere in discussione questa figura, mostrandone i “danni” dal punto di vista del protagonista, ma Edgar Wright (e in origine Bryan Lee O’Malley) fanno un passo ulteriore e molto più radicale: la annientano dall’interno.

Ramona non è un premio da vincere o un sogno da realizzare; è una persona reale, con un passato ingombrante e complicato, e i suoi sette malvagi ex non sono un bizzarro espediente narrativo, ma la metafora più potente e letterale del concetto di “bagaglio emotivo”.

Scott, per stare con lei, non deve semplicemente conquistarla; deve affrontare, letteralmente, i suoi traumi, i suoi errori, le sue relazioni passate. Ramona non è perfetta; commette errori, è irritante e a volte è egoista e scappa dalle sue responsabilità. Non è lì per salvare Scott. Anzi, per gran parte del film, è lei stessa a dover essere salvata, ma non da un nemico esterno, bensì da sé stessa e dalle sue scelte. Non un trofeo, ma una persona, che diventa anche un motivo di maturazione per il protagonista.

Un film generazionale

Sì lo so, a volte la definizione è usata a sproposito, ma per stavolta facciamo finta di essere tutti d’accordo.

Sì, Scott Pilgrim vs. The World è un film generazionale. E il perché è presto spiegato.

Semplicemente, parlava la lingua di una generazione prima ancora che quella generazione si rendesse conto di averne una. Per chi è cresciuto negli anni ’90 e 2000, tra Super Mario, Street Fighter, fumetti indipendenti e la musica di MTV, il film di Wright non era un esercizio di stile, ma una specie di dichiarazione d’amore.

La sua estetica non era un vezzo, ma il modo in cui quella generazione vedeva il mondo: una serie di livelli da superare, di boss da sconfiggere, con una colonna sonora indie rock a fare da sottofondo. Ma al di là del linguaggio, la sua eredità risiede nei suoi temi, oggi più attuali che mai, parlando della difficoltà di entrare nell’età adulta, di relazioni complicate e, soprattutto, del bisogno di imparare ad amare sé stessi, in un’ultima, vera battaglia in cui Scott non lotta per Ramona, ma per il rispetto di sé, guadagnando il potere più grande che una persona possa avere, ovvero il “Potere dell’Amor Proprio“.

Questo, era su per giù Scott Pilgrim vs. The World.
Se lo avete già amato, è il momento perfetto per un rewatch. Scoprirete che, quindici anni dopo, non ha perso un briciolo della sua energia. Anzi, come un buon vino o un classico videogioco, è solo migliorato.

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