Chi non conosce lo Studio Ghibli? Sebbene spero che la risposta sia “nessuno”, non si sa mai. Per queste povere anime, per chi lo conosce ma vuole saperne di più o anche solo per chiunque abbia voglia di leggere, inizia da oggi una serie di articoli dedicati ai vari film prodotti dallo Studio Ghibli. Non mi limiterò ai titoli diretti dal più famoso Hayao Miyazaki, ma spazierò fino a coprire tutta la produzione dello studio, in ordine rigorosamente casuale, così vi tengo sulle spine.
Devo dire la verità: sono approdata ai film dello studio giapponese solo da grandicella (il primo che ho visto è stato La Città Incantata al cinema all’aperto, quanti ricordi – e quanti incubi la notte), e la passione è arrivata più tardi, ma ho recuperato il tempo perso meglio che ho potuto. In fondo, a chi serve dormire la notte prima di andare al lavoro, quando ci si può dilettare con la visione di film e il successivo approfondimento compulsivo degli stessi?
Detto ciò, inauguro questa rubrica dedicata allo Studio Ghibli con uno dei miei film d’animazione preferiti: Principessa Mononoke.
Tra i vari film questo è, a mio avviso, uno dei più completi ed equilibrati dell’intera produzione. Trama, crescita dei personaggi e temi trattati sono gestiti alla perfezione, facendo ben spiccare il messaggio ambientalista senza comunque far risultare il film pesante o noioso, anzi.
Ma partiamo dall’inizio!
Diretto da Hayao Miyazaki, Principessa Mononoke (もののけ姫 Mononoke-hime in giapponese) è un film d’animazione giapponese del 1997, uscito in Italia nel 2000 e ridoppiato nel 2014. Una curiosità linguistica sul titolo: Mononoke non è il nome della principessa in questione, come verrebbe da pensare, bensì una parola difficilmente traducibile in italiano che significa “spettro vendicativo”. In effetti, “Principessa Spettro” avrebbe dato tutt’altra impressione!
La storia si ambienta nel Giappone feudale, con elementi fantasy tratti dal folklore giapponese. Miyazaki ha scelto di distanziarsi dalla classica immagine del Giappone storico-fantasy dai tratti epici data da molte altre produzioni, mostrando invece un mondo rurale agli albori dell’industrializzazione: difatti, anziché samurai o nobiluomini, i personaggi più trattati sono lavoratori, donne e spiriti della foresta.
La vicenda inizia quando un demone attacca un villaggio di contadini e il loro giovane principe, Ashitaka, è costretto a ucciderlo. Nello scontro, però, il ragazzo viene ferito al braccio e contagiato dal rancore del demone, che si rivela essere uno spirito cinghiale reso folle dal dolore e dall’odio. Ormai maledetto e condannato alla sofferenza e alla morte, Ashitaka si dirige verso ovest per ricercare la causa di quanto accaduto “con occhi non velati dall’odio”.
Dopo un lungo viaggio, Ashitaka si imbatte infine in una vera e propria lotta tra la città e la natura. La signora Eboshi, capo della Città del Ferro, sfrutta e distrugge la foresta circostante per alimentare l’industria di armi e prendersi cura dei suoi cittadini; ad ostacolarla c’è San, la principessa Mononoke, cresciuta da una dea lupa e votata ad uccidere Eboshi e fermare gli odiati umani. Ashitaka capisce presto che non tutto è bianco o nero: la signora Eboshi è ambiziosa e senza riguardi verso la foresta e i suoi abitanti, ma si prende cura dei suoi cittadini. Dall’altra parte, San e gli spiriti animali vogliono difendersi, ma non conoscono altro che la violenza.
La storia si evolve in un crescendo fino al conflitto finale, dove la distruzione non risparmia nessuno, ma lascia dei germogli che potranno forse crescere in un nuovo inizio.
Come si può immaginare, l’argomento principale del film è ovviamente l’ambiente. Questo è un tema molto caro a Miyazaki, che l’aveva già affrontato in altri film come Nausicaä della Valle del Vento o Il mio vicino Totoro. A differenza dei due titoli precedenti, però, in Principessa Mononoke lo approfondisce e ne dà una visione complessa e multisfaccettata.
Sarebbe semplice dire che uomo = cattivo e natura = buono, no? E invece no.
I personaggi di Mononoke sono a tutto tondo, con pregi e difetti, a simboleggiare che il bene e il male non si escludono a vicenda, ma sono entrambi presenti nella natura umana.
Gli uomini sono sì ambiziosi e talvolta crudeli, ma sono anche capaci di accoglienza e di cure. Eboshi, ad esempio, agisce come agisce perché vuole prendersi cura del suo popolo. Ha salvato molte donne, precedentemente schiave, e ha dato loro un impiego importante nella produzione del ferro; ha accolto i lebbrosi nella sua residenza privata, trattandoli come esseri umani e dando loro un lavoro. L’errore di Eboshi, alla fine, è quello di dare maggior valore all’uomo che alla natura che lo sostenta.
San, dal canto suo, inizialmente non conosce altra reazione che la violenza: spinta dal voler proteggere la foresta e la natura, non riesce che a continuare il conflitto con la Città, causando la morte di molti lavoratori nel tentativo di uccidere Eboshi.
Le vicende del film spingono tutti i suoi personaggi a crescere e a maturare, mostrando che c’è una speranza nella comprensione reciproca. Il primo a raggiungere una diversa consapevolezza è ovviamente Ashitaka, vittima diretta dell’odio, simbolo delle conseguenze ambientali di uno sfruttamento indiscriminato. Invece di aggiungere rancore su rancore, Ashitaka sfrutta la sua esperienza per elevarsi al di sopra del conflitto tra le due parti e cercare una conciliazione.
Dove non possono le parole e le azioni di Ashitaka, possono le conseguenze delle azioni umane. I poteri distruttivi della natura sono scatenati dalle influenze dell’uomo e non risparmiano nessuno: pensiamo ad esempio alle frane nelle aree disboscate, o alle tragedie causate dalla rottura delle dighe. Il messaggio di necessità di coesistenza in armonia dell’uomo e della natura è particolarmente efficace perché, oltre che essere diretto allo spettatore, passa anche ai personaggi stessi, che hanno così modo di crescere e di migliorare.
Questa gestione dei personaggi, con i loro difetti e la loro crescita che li rendono realistici, è il maggiore punto di forza di un film che riesce nel proposito di insegnare qualcosa, senza risultare scontato.
Passando alla parte tecnica, non si può non menzionare la straordinaria animazione di cui è capace lo Studio Ghibli. Miyazaki, a buona ragione, sostiene che il disegno su carta sia la base dell’animazione. Il film, infatti, è quasi completamente animato in maniera tradizionale, con i fotogrammi disegnati e dipinti a mano: sebbene sia un lavoro lungo e massacrante, la qualità che ne risulta è di livello estremamente elevato. Per velocizzare l’uscita nelle sale in Giappone, in Principessa Mononoke sono state utilizzate anche l’animazione e la colorazione digitali, gestite in modo da mescolarsi al resto del film.
In conclusione, Principessa Mononoke è un lavoro eccezionale. Rispetto ai film precedenti diretti da Miyazaki è più maturo e più complesso, forse non diretto ad un pubblico giovanissimo date le atmosfere più cupe e alcune scene di violenza. Grazie anche alla colonna sonora (che rimane in testa ben oltre la fine del film, almeno a me), le sensazioni che il film vuole creare arrivano vivide e forti allo spettatore.
Dunque, sventurati che ancora ignoravate l’arte targata Ghibli, cosa aspettate ancora a guardare questo capolavoro?