C’è stato un tempo in cui uno dei generi più prolifici del settore videoludico era l’avventura grafica, in quel periodo sono nate delle pietre miliari come Myst, Monkey Island, King’s Quest, Grim Fandango, Leisure Suit Larry, Zak McKraken e chi più ne ha più ne metta. Poi, il declino. Fregati non si sa bene da cosa, forse dall’avvento delle console 3D, forse dall’inserimento di trame interessanti anche in generi più dinamici. Fatto sta che per una quindicina d’anni circa, le grandi avventure grafiche sono pressoché scomparse per poi fare nuovamente capolino grazie a team di sviluppo che ci hanno scommesso sopra (fra tutti, senza dubbio, spiccano i prolifici Telltale Games). E proprio a questa nuova linfa vitale è tornato ad attingere uno dei padri dei giochi sopra citati: Tim Schafer, insieme alla sua Double Fine Productions.
Il buon Tim non si è certamente tenuto le mani in mano, e dai tempi di Grim Fandango ha prodotto perle come Psychonauts e Brütal Legend, tornando poi alla sua patria videoludica dopo 14 anni con il titolo di cui vi parlerò, ovvero, Broken Age.
Questo è stato uno dei primi videogiochi finanziato tramite crowdfunding, raggiungendo un guadagno totale di 3,45 milioni di dollari (su un obiettivo prefissato di 400.000). Il grande successo ha permesso un ingrandimento del progetto, includendo anche star del calibro di Elijah Wood (che interpreta il protagonista maschile) e Jack Black; questo “boom” però ha avuto il suo colpo di coda, modificando radicalmente i ritmi di produzione e portando il gioco a dover essere diviso in due parti, uscite a distanza di mesi l’una dall’altra, con ovvi malcontenti da parte dei finanziatori.
Più interessante è la storia vera e propria di Broken Age, che ruota intorno ad una ragazza e un ragazzo, Vella e Shay. I due non si conoscono, vivono in luoghi molto diversi e vivono drammi molto diversi. Per intendersi, quando li conosciamo, Vella sta per essere offerta dagli abitanti del suo villaggio di pasticcieri e dalla sua famiglia, come da tradizione, in sacrificio ad un orrendo mostro, mentre Shay vive confinato nella sua astronave, costantemente monitorato ed iper-protetto dai suoi due genitori-computer, in un mondo fittizio creato su misura per lui. Da subito appare chiaro il turbamento di entrambi, certo, essere divorati da un mostro forse è un momentino più terribile dell’essere circondati da muri di morbida lana, ma quello che conta è il significato: entrambi i ragazzi vivono quelle lotte che tutti affrontano. Da un lato le aspettative della società e dei genitori, che vogliono imporre ciò che è meglio per i propri ragazzi e ragazze, senza lasciare la possibilità di una scelta vera e propria. Dall’altro la paura per il futuro, per il cambiamento inevitabile, per l’allontanamento dal nido che tutti, genitori e figli, prima o poi si trovano a fronteggiare. Tematiche apparentemente inflazionate, che siamo abituati a vedere rappresentate in film dove adolescenti imbizzarrite passano il loro tempo a sbattere la porta della cameretta o a dedicare compilation, ma che in questo gioco vengono esposte con una delicatezza e una cura tali da coinvolgere anche chi non si sente direttamente interessato all’argomento.
Dopo i primi minuti di gioco, quello che è l’incipit della storia sfocia in una serie di eventi che porterà entrambi i ragazzi, estranei ma in qualche modo legati, a vivere delle avventure parallele che non avrebbero mai immaginato fino a quel momento, introducendo il proverbiale bastone fra le ruote di quel sistema che li tiene assoggettati, facendoci vivere insieme a loro molti momenti di riflessione, a volte nascosti, a volte meno espliciti, spesso posti in quella chiave ironica a cui i grandi capolavori LucasArts ci hanno abituati. E così conosceremo personaggi come l’iracondo coltello Dutch o il santone nuvolare Harm’ny Lightbeard (doppiato dal già citato Jack Black), il permaloso albero parlante o il misterioso lupo umanoide Marek, ognuno con una caratterizzazione convincente e mai noiosa, capace di catturare perché coadiuvata da un doppiaggio di ottima qualità.
Al di là della storia e della caratterizzazione, Broken Age colpisce per uno stile grafico davvero appagante e ben studiato: interamente realizzato con una tecnica che ricorda i pastelli a cera, risulta dettagliato ed evocativo, sempre equilibrato e adeguato per le ambientazioni.
Menzione d’onore per la colonna sonora, davvero bella e originale e apprezzabile nella sua interezza senza essere invasiva.
Altra particolarità è la struttura del gameplay, sebbene ci troviamo di fronte alla classica avventura punta e clicca, la possibilità di controllare due personaggi separati, ci permette di continuare con una storia quando nell’altra ci troveremo bloccati, cambiando protagonista in qualsiasi momento vorremo. A proposito del rimanere bloccati, va toccato un argomento delicato per gli appassionati del genere: la difficoltà degli indovinelli. Sicuramente non ci troveremo davanti a cervellotiche sfide, ma nemmeno saranno enigmi lineari. Sia chiaro, non dovremo inserire nessuna carrucola in nessun pollo, ma i più esperti potrebbero trovare un po’ troppo facili alcuni rompicapo. Va detto che una difficoltà più rilassata aiuta a godere della trama e di tutti gli altri elementi del gioco, senza però togliere nulla all’appagamento della risoluzione degli enigmi. In ogni caso, si tratta senza dubbio di un elemento soggettivo che non credo possa inficiare più di tanto sulla qualità finale. La longevità potrebbe risentirne, ma un intero playthrough, in media, si va comunque ad assestare su delle rispettabili 15-20 ore, che sicuramente valgono il prezzo del ”biglietto”.
La domanda che ci si pone adesso è: Double Fine è riuscita a riportare alla gloria il genere delle avventure punta e clicca vecchio stile, quelle favole ricche di personaggi memorabili, storie originali e interessanti e ambientazioni ben caratterizzate? La mia risposta è sì, la sensazione è quella di giocare a una vecchia (ma innovativa) produzione LucasArts, ma resto con qualche riserva, per quanto Broken Age sia un prodotto davvero, davvero valido, ci sono alcune incrinature nella realizzazione, specie nel secondo atto. Forse a causa delle scadenze incombenti, il gioco risulta un poco più frettoloso nella seconda parte e sembra voler tirare le fila della storia ad un ritmo più accelerato della prima parte, sempre in modo coerente, mai raffazzonato, ma meno rilassato. Inoltre il finale, senza ovviamente fare spoiler, risulta forse troncato, come se mancasse un epilogo vero e proprio (che ci viene però mostrato in qualche modo durante i credits finali). Forse, come molti degli elementi del gioco, anche il finale va letto in modo simbolico e sono più i percorsi di crescita dei personaggi ad arrivare a un punto fermo che le storie vere e proprie, e questo non è facile da leggere al primo colpo. Per questo motivo, e anche per altri di cui non posso parlare senza rivelare importantissimi dettagli della trama, il titolo vale senza dubbio la pena sì di essere giocato ma anche rigiocato, per comprendere certi indizi lasciati qua e la e per capire meglio i personaggi e il messaggio che portano.
Broken Age può sembrare – ed essere – un’operazione nostalgia, ma una volta finito, vi accorgerete che arriverà sì la nostalgia, ma di Vella, Shay e tutti i loro amici.
Broken Age è disponibile su Steam per Windows, Mac e Linux, su Playstation Store, per PS4 e PS Vita e su App Store e Play Store per mobile.
Nerdando in breve
Broken Age vi riporterà nel magico mondo delle avventure punta e clicca vecchio stile, conquistandovi con la sua simpatia e profondità.
Contenuti