Mombasa è ambientato nell’Africa coloniale: terra ricca di materie prime su cui noi, da buoni europei gonfi di soldi e iniziativa, andremo a lucrare all’inverosimile. Ogni giocatore è quindi un investitore esterno che scommette sulla crescita delle quattro compagnie con sede a Mombasa, Cape Town, St. Louis e il Cairo, ognuna delle quali specializzata nel commercio di una materia prima: cotone, caffè, banane e “esplorazione”.
La prima cosa che colpisce di Mombasa è il tabellone “affollato” e molto poco intuitivo. Sicuramente ci si sente spiazzati di fronte alla miriade di criptiche iconcine, simbolini e ordinatissime casette colorate. Infatti tutte le informazioni sono stilizzate da buon german che si rispetti e la dipendenza dalla lingua è pressoché nulla. Il problema è che bisogna farci l’occhio per interpretare bene ogni tassellino e ogni carta da gioco (esemplificativi i tassellini dei libri contabili: il boccone più ostico da digerire durante lo spiegone). Di conseguenza anche il tempo per il settaggio del gioco si dilaterà rispetto alla media. Come ho detto più in alto, Mombasa è un gioco estremo, per cui mettete in conto venti minuti comodi per settare il tutto e un’oretta per spiegarlo in modo esaustivo.
Senza la pretesa di dipanare tutte le sfaccettature del gioco, mi limiterò a dire che Mombasa dura 7 turni, ognuno diviso in 3 fasi: la prima di pianificazione, la seconda delle azioni e l’ultima di preparazione del turno successivo. Se la fase delle azioni, seppur complessa, è la classica fase di posizionamento segnalini e gestione delle risorse, la fase di pianificazione è quella che ho trovato davvero originale. All’inizio di ogni turno, il giocatore deve scegliere dal suo mazzo 3 carte con le merci che scambierà durante il turno (fino a 5 con l’avanzare della partita) posizionandole negli appositi slot nella parte inferiore della plancia personale. Alla fine del turno le tre carte usate verranno spostate sopra la plancia e andranno a costituire tre rispettive pile degli scarti. Infine nel successivo turno, per rimpinguare il mazzo, il giocatore sceglierà una di queste tre pile riutilizzando le carte scartate in precedenza. Quindi bisogna fare particolare attenzione anche al “deckbuilding” in quanto bisogna calcolare prima quali saranno le carte migliori da usare in quel momento, pianificando le giocate in relazione agli scarti e al numero dei turni (vi accorgerete che sette turni saranno davvero pochi). Questa meccanica non è propriamente semplice e intuitiva, per cui non mi dilungherò descrivendo le singole azioni.
Potrebbe sembrare semplicistico dividere i boardgames tra “american” e “german”, e forse lo è. Se da un lato gli american sono caratterizzati da una maggiore importanza dell’alea, le grafiche fumettose e un maggior coinvolgimento emotivo, i giochi german sono asettici, caratterizzati da poca interazione tra i giocatori e molta strategia. Lungi da me alimentare dualismi, ma alla luce di ciò posso dire che Mombasa è un german estremo: più complesso e profondo di classiconi come Agricola o Puerto Rico, lo collocherei sullo stesso piano di Aquasphere o Russian Railroads per pianificazione e quantità di variabili da considerare.
Insomma, gli autori di Mombasa non credo abbiano voluto emozionare il giocatore ricreando la particolare atmosfera africana, ma nemmeno polemizzare sullo sfruttamento da parte di compagnie estere. L’intento credo sia stato quello di creare un titolo cervellotico in cui la pianificazione di ogni singola mossa la fa da padrona. Di sicuro non è un gioco mainstream, in quanto ci vuole davvero tanta motivazione per iniziare a giocare e altrettanta per dipanarsi nei meandri del regolamento, però sono certo piacerà moltissimo alla nicchia di puristi del genere german.