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Lifeless Planet – L’assordante silenzio del vuoto

Che paesaggi

Che paesaggi

Chi mi conosce sa che sono un appassionato tanto di fantascienza quando di astronomia. Sa che sono un trekker sfegatato che divora e adora tutto ciò che viene ranicchiato sotto il cappello “Star Trek”, anche le produzioni peggiori come Voyager, o gli alieni più stupidi come i Ferengi.
Ovvio che un appassionato tale, che divora anche film orrendi come Event Horizon e Red Planet, non poteva che buttarsi a pesce (Douglas Adams batti un colpo) su di un titolo che, fin dai primi screenshot, prometteva lande desolate, colonizzazione extramondo, e morti orribili: sto parlando di Lifeless Planet.

Già dalle prime battute, il titolo mi immerge in una location disturbante: la mia navicella si schiata in un deserto e il pianeta, che avrebbe dovuto essere ricco di vita, si mostra invece come un deserto crudo e pericoloso.
Compagni di viaggio? Nessuno. Attrezzi? No. Rover? Nemmeno! Aria? L’aria sta finendo! Sto giocando da due minuti e sono già in punto di morte! Mi do un’occhiata in giro e trovo un’altura per guardare il panorama, ma quel che vedo è un’infinita distesa di nulla: sabbia e rocce, nient’altro.
Poi un luccichio in lontananza attira la mia attenzione ma non ho bussole, né mappe… non so cosa fare… Mi avvio e pochi istanti prima che l’aria nella bombola finisca, trovo un’ancora di salvezza: un modulo spaziale con delle riserve.
Ora che il pericolo immediato è scampato, posso iniziare ad esplorare con più serenità ed ecco che appaiono le prime cose da scoprire: rocce, minerali e poi dei log da consultare.
Capisco di essere l’ultimo di una spedizione, il pianeta avrebbe dovuto essere completamente colonizzato, quindi qualcosa è andato storto e l’unica cosa da fare è indagare, scoprire e capire cosa sia successo.

Inizia un viaggio della speranza, dove la crudezza del pianeta alieno la fa da padrona. In questa terra desolata, fatta di rocce e lande, mettere un piede in fallo e morire è questione di attimi.
Apprezzo molto questo aspetto del gioco: non ho mappe, non ho punti di riferimento e la sensazione di disorientamento, del “cast away”, è quasi soffocante; se ad un non-appassionato potrebbe partire il “ma che razza di gioco è, se non ti dice che devi fare?”, su di me invece scatena gli istinti trekker più profondi, quelli dell’esplorazione di uno “strano, nuovo mondo…”. Immagino che i primi uomini su Marte si sentiranno proprio così.
Ed eccomi quindi alla ricerca di forme di vita e le prime che incontro, dopo oltre due ore di gioco, non sono per nulla amichevoli e quando finalmente trovo segni di civiltà (una città, un insediamento umano, un laboratorio scentifico), il sollievo dei primi momenti viene subito contorto e ripagato col l’orrore del vuoto e del silenzio.
Qualcosa di orrendo è accaduto su questo pianeta, e capisco subito di essere in immediato pericolo di vita.
All’orizzonte si erge un immenso vortice di sabbia, e non me la sento di scoprire se la mia tuta spaziale è in grado di sopportare le sue sollecitazioni.
Scappo in quello che sembra essere il rudere di una chiesa, e trovo il mio primo contatto umano e qui, ancora una volta, il sollievo di un istante viene spazzato via dall’orrore della morte. Una morte insensata, ingiusta, incomprensibile e l’unica spiegazione che mi sento di dare, appogiando il controller per prendere fiato, è che l’uomo ancora una volta si è spinto troppo in là, è andato ad esplorare qualcosa che, probabilmente, avrebbe dovuto restare celato nel mistero delle sabbie aliene.

Riprendo il controller ed entro nella miniera di uno strano metallo verde luminescente, e da lì riemergo in una clinica medica deserta. In fondo, c’è un’apertura verso l’esterno, sto per rimettere piede sul pianeta. Ma cosa mi aspetterà dopo la prossima svolta?

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